È appena uscito uno studio inglese (gennaio 2012) sul destino dei feti cui è diagnosticata la sindrome di Turner. Morale: il 65% è stato abortito. Ma, pur con la certezza che nessuna malattia di un feto ne giustifica la soppressione, qui si tratta di bambine (sono femminucce) che come tratto distintivo avranno quello di essere abbastanza basse di statura e in certi casi di non poter aver figli. Che i genitori che le hanno abortite siano stati atterriti dallo “spaventoso dramma” di non poter diventare nonni?
E non è un problema solo inglese: i dati italiani sono simili: la regione Emilia Romagna virtuosamente è tra le poche che mettono on line il loro registro delle anomalie genetiche, e nel suo registro IMER (www.registroimer.it) vediamo che dal 2006 al 2008 su 22 feti con sindrome Turner, ne sono stati abortiti 14, cioè il 63,6%. Come chiamate voi questo clima che elimina oltre la metà di feti perché saranno piccoli e (forse) sterili? Questo ci riporta al dibattito (ormai sopito, censurato e nascosto) se la diagnosi prenatale genetica sia uno strumento eticamente neutro. Già, si potrà dire che nessuno obbliga nessun genitore ad abortire, che si ha diritto di conoscere, ecc. Ma, se uno non vuole abortire, non si capisce perché voglia sapere “in tempo utile per l’aborto” se il figlio ha un’anomalia genetica (e in questo caso, che anomalia!). E si potrà anche dire che chi fa la diagnosi non è spesso il medico che fa l’aborto. Certo, ma se l’esito è quello sopra descritto, un po’ di preoccupazione a qualcuno dovrebbe venire.
Oltretutto è chiaro che basta sentire parlare di “anomalia” che scatta subito non tanto l’allarme (che ovviamente è giustificato), ma anche il pensierino all’aborto, dato che la percentuale di bimbe Turner abortite è pari a quella dei bambini Down abortiti: dunque l’eliminazione non fa differenze sottili tra malattie; più che altro rispecchia la precedente predisposizione della coppia ad accettare la malattia del figlio, qualunque malattia sia; cioè ad accettare che il figlio non sia “perfetto!” Cosa che però – ripeto – se accettavano a priori, non si vede perché dovessero andarlo a controllare con un esame oltretutto pericoloso per la salute del feto stesso, dato che ne può provocare la morte. Insomma: la diagnosi prenatale genetica (fatta con amniocentesi o solo con delle ecografie mirate che oggi fanno tutte le donne come screening) è davvero neutra?
La possiamo paragonare al coltello che una persona usa per tagliare il pane e un’altra per scopi meno buoni, ma sempre coltello – dunque né cattivo, né buono – resta? Oppure sarebbe meglio paragonarla a una torta enorme che mettiamo in tavola invece del pranzo normale a una banda di bambini di due anni? Certo, nessuno li obbliga a mangiare troppo; e magari a molti la mamma avrà detto di stare attento e non esagerare; ma a quanti viene poi il mal di pancia?
Già, perché è vero che gli “strumenti” sono neutri, ma se vengono usati in un momento di fragilità non lo sono più. E quanto è fragile il periodo della gravidanza… e quanto è fragile l’uomo della società post-moderna, tutto infervorato nel culto della perfezione fisica e nella fobia delle malattie. E si noti che ho volutamente usato un esempio “soft”, per non irritare nessuno, ma le conseguenze finali che abbiamo illustrato all’inizio dell’articolo sono ben diverse da un mal di pancia.
Non pensate che, soprattutto chi dà consigli morali e si occupa di etica, magari preoccupato per il numero di aborti, ma purtroppo poco dal clima culturale che precede e circonda gli aborti stessi (dunque in deficit di capacità educativa), dovrebbe riflettere?