«Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare, ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare l’anima dei guai». La ben nota conversazione fra il comandante della Costa Concordia, Francesco Schettino, e il comandante Gregorio Maria De Falco della Capitaneria di Porto di Livorno – che sta facendo il giro di tutti i canali del mondo – tradisce nel suo momento più concitato la napoletanità di entrambi i protagonisti, in positivo e in negativo, dell’immane e imperdonabile tragedia dell’Isola del Giglio.



Ho l’intima speranza che anche nell’estremo giudizio cui saremo sottoposti potremo beneficiare davanti alla Misericordia divina di una sorta di presunzione di innocenza sul modello dei giudizi terreni. Ho la sensazione, però, che per il popolo partenopeo il beneficio potrebbe essere più a rischio dovendosi dimostrare, con un’inversione dell’onere della prova, perché di fronte a tanta bellezza di arte, natura, clima e cultura che bacia la città i risultati siano così scadenti.



Ora, abbandonando lo scherzo per passare alla tremenda serietà di questa vicenda, a costo di passare per razzisti anti-napoletani qualcosa di scomodo vogliamo dirlo. E cioè che per questa città, finché non si inizierà a prendere sul serio le regole come portato del bene comune, finché ci sarà sempre una scusa buona per buttarla “in caciara” – come dicono a Roma – finché si userà la sceneggiata, la tarantella e “o sole mio” per non fare i conti con le responsabilità, andrà sempre peggio.

Che c’entra Napoli, direte voi? O forse avrete già intuito la pericolosa insinuazione del ragionamento. Sì, è vero, è presto per emettere giudizi definitivi, ma non ci stupirebbe se alla fine tutta la vicenda della Costa Concordia dovesse risultare il tragico prodotto di una spacconata, la tarantella che prende il sopravvento sulle regole anche nella plancia di comando, un tragico incrocio – insomma – fra le rigide regole della navigazione e quelle più leggere dell’avanspettacolo di improvvisazione. Magari sull’effetto di qualche alcolico di troppo, di qualche capo-cuoco a bordo residente nell’isola da omaggiare e persino di qualche presenza avvenente nei paraggi a rendere l’ebrezza ancora più ebrezza. Tutte ipotesi che facciamo per mettere in campo un momentaneo annebbiamento del cervello per non doversi parlare tout court di incompetenza, restando comunque difficile, come che sia, non ricavare l’idea di un’inadeguatezza al ruolo del principale protagonista.



Gli amanti del genere potrebbero subito obiettare che Meta di Sorrento, il paese di residenza di Schettino, è un paradiso di bellezza e civiltà come tutta la costiera sorrentina che non può essere messo in alcun modo sullo stesso piano dei problemi di Napoli e del suo hinterland. Ma anche a non voler utilizzare questo distinguo geografico ecco spuntare nella stessa vicenda la figura del comandante della capitaneria di Livorno, De Falco, napoletano anche lui, a darci torto nel nostro tentativo – se mai vi fosse – di teorizzare un generale problema antropologico irrisolto dalle parti del Vesuvio.

Sospettiamo vivamente che Schettino abbia fatto colpevolmente trascorrere importanti minuti nel tentativo di blindare a telefono con la direzione della Compagnia – che non disdegnava, a quanto pare, la rischiosa esibizione dei suoi gioielli del mare davanti ai principali porti – una versione di comodo per l’evento, nella speranza si trattasse di un disastro meno grave. Ebbene, mentre Schettino sciaguratamente non dava segno di sé alle pubbliche autorità per chiedere aiuto, ecco l’altro napoletano De Falco prendere in mano la situazione mostrando una consapevolezza dello stato delle cose che spiazza i bluff di Schettino, grazie al rapporto arrivato da una motovedetta della Finanza operante per caso nell’area e nel momento del disastro.

Anche qui ci sarà da capire meglio, perché c’è chi sostiene che anche da terra si poteva fare qualcosa per bloccare, prima che fosse troppo tardi, una rotta di navigazione e una velocità della stessa al di fuori di ogni protocollo marittimo. Ma allo stato dell’arte non riusciamo a non simpatizzare con questa figura di servitore dello Stato che, intuendo la gravità della situazione, resta al suo posto in un’ora in cui i comuni mortali sono già da tempo nelle braccia di Morfeo, tranquillamente, lasciando a qualche sottufficiale malcapitato la gestione dell’emergenza.

Napoli 1 e 2, insomma: ecco dove può condurre quell’approccio tutto meridionale con la legge che non è, e non deve essere, l’unica e l’ultima ispiratrice dell’azione umana. Può condurre, molto al di sopra del dettato della legge stessa (chiamasi sussidiarietà, che è il contrario della burocrazia, anche se il protagonista è un uomo dello Stato) o molto al di sotto, nell’irresponsabile deriva del relativismo normativo, che magari genera anche una simpatia istintiva, come la tarantella, ma in realtà nasconde solo la voglia di fare ognuno un po’ come gli pare, sulla pelle dei malcapitati. Che stavolta erano tanti, più di quattromila, in balìa di un comandante che – abbiamo la sensazione – non troverà facilmente un giudice disposto a credere che sia scivolato in una scialuppa, di notte, mentre i suoi passeggeri si ribellavano – alcuni troppo tardi – alla palese bugia di un guasto temporaneo alla centrale elettrica. Dando vita a un tragico fai-da-te nella notte dell’Isola del Giglio, abitata da gente eroica e di grande carità cristiana.