“Educare i giovani alla giustizia e alla pace”. È questo il titolo del messaggio che il papa ha inviato ai capi di stato di tutto il pianeta, come tradizione, a Capodanno, in occasione della Giornata mondiale della pace. Allo stesso tema Benedetto XVI ha dedicato l’omelia nella messa celebrata nella basilica vaticana, alla presenza del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede e di alcune migliaia di fedeli comuni. 



Diciamolo: il termine educazione, per molti di noi figli o nipoti del ’68, è ancora indigesto. Sa di imposizione, rimanda a ricordi di gioventù (ormai sbiaditi) in cui l’“educazione” familiare era sentita (e talvolta lo era davvero) come qualcosa di formale, borghese, convenzionale. Ma il rimedio (la rinuncia all’educazione, il rifiuto della figura del padre) è stato peggiore del male che si contestava. Ha fatto crescere le nuove generazioni in un deserto. 



Il papa ripropone la questione, a tutti, non solo ai cattolici. “Ha ancora senso educare? e poi educare a che cosa?”. È la premessa necessaria per capire quanto Benedetto XVI ha voluto dirci, ieri, a proposito della pace; quella pace che “il mondo da se non sa darsi e di cui ha bisogno, come e più del pane”. La pace innanzitutto con noi stessi, sempre insoddisfatti, sempre in ritardo, affannati. E la pace nel mondo globale, che “si è fatto più piccolo” e mette a contatto ogni giorno “culture e tradizioni diverse” ma dove l’accettazione del diverso non è scontata. Anzi proprio la nuova realtà sociale in cui crescono i giovani può indurre comportamenti opposti “intolleranti e violenti”.  Per loro, oggi più che mai, dice il papa, “è indispensabile imparare il valore e il metodo della convivenza pacifica, del rispetto reciproco, del dialogo e della comprensione”. Pensiamo, per dare carne a queste parole, a  cosa esse possano significare per un giovane ebreo di famiglia ortodossa, per un ragazzo palestinese cresciuto in un campo profughi, o per i figli degli immigrati in un’Europa, soprattutto nordica, dove le tendenze xenofobe non sono più circoscrivibili solo a qualche gruppuscolo di nazi-skin.



Ma come si fa, appunto, ad educare la coscienza dei giovani (e non solo loro) al valore positivo del rispetto dell’altro, dell’accoglienza del diverso? Ognuno è chiamato in causa: la chiesa, le famiglie, la scuola. Laici e credenti. L’illuminismo al suo sorgere ha creduto di poter dare lezioni alla Chiesa cattolica, proprio sul terreno della tolleranza e del dialogo. E già il cardinale Ratzinger ammetteva senza problemi che alla Chiesa, storicamente, la lezione fu utile. Ma certo, per inculcare oggi certi valori non basterà qualche spot della pubblicità progresso o qualche corso in più di educazione civica nell’era globale. Non basta “sapere” come ci si “deve” comportare per ottenere il risultato sperato. C’è qualcosa che viene prima, un livello umano da far rinascere, come può nascere un fiore nel deserto. Su questo terreno, oggi, sarebbe appassionante il confronto, tanto desiderato dal papa, fra la Chiesa e gli agnostici in ricerca. 

Una cosa è chiara a Benedetto XVI: il contributo più reale all’educazione alla pace i cristiani lo potranno dare essendo semplicemente se stessi. “Dio è amore, è giusto e pacifico, e chi vuole onorarlo deve anzitutto comportarsi come un figlio che segue l’esempio del padre”. Anche le verità che la Chiesa professa mai potranno essere impugnate come un’arma contro chi queste verità non conosce. Sarebbe come negare la natura stessa della fede, negare la Grazia: “In Gesù ‘amore e verità’ si sono incontrati, ‘giustizia e pace’ si sono baciate”.