Un giornalista francese chiede di sposare in municipio la sua compagna da cui ha una figlia. Lei è marocchina, musulmana. E alla “mairie” parigina gli chiedono un certificato “di costume” che dimostri la sua fede nell’Islam, come stabilisce la legislazione in Marocco. Dunque, dovrebbe convertirsi o fingere di essersi convertito. Ingiusto, disumano, perché evidentemente si ritiene che l’Islam sia non una fede, ma un insieme di precetti morali, e crediamo che sia fatto un torto agli islamici credenti e innamorati di Dio.



Niente di cui stupirsi, anche noi cattolici riduciamo la fede ad etica, salvo poi, a furia di riduzioni, a ritenere che sia un’etica troppo pesante da sostenere, troppo anacronistica, e dunque passibile di essere scavalcata ogni volta che lo si crede. È questo il portato della modernità: trasformare anche la fede in un fai da te che vien buona per consolare o sostenere nei momenti più neri. O quando proprio non si censuri quel desiderio di infinito che ci pulsa in cuore; ma quando chiede fedeltà e diversità, e quando costano care, puoi tranquillamente appellarti alla libertà della coscienza, al tuo essere adulto, a una parziale interpretazione del Concilio o all’eredità dell’Illuminismo che fonda la civiltà europea. Si chiama relativismo, è una parola che inquieta solo Benedetto XVI, di solito è considerata un blasone (“È relativo”, “dipende da quel che sei, da quel che senti, da quel che capita, dall’ambiente, dalle condizioni, dalle emozioni… dipende”, sono ritornelli a cui ci siamo abituati).



Scusate la digressione, perché la notizia naturalmente è un’altra: che un cittadino francese sia costretto nelle sue scelte più intime, nelle sue convinzioni, per poter amare la sua donna e la sua bambina. Inconcepibile. È questo il volto più comune dell’Islam, signori miei, e ci dispiace per gli altri, diceva una canzone, che sempre più faticosamente tentano una argine al fondamentalismo. Che dilaga, anche perché si radica in paesi in cui l’Islam è religione di Stato, e non si tratta solo di principi, ma di galera e torture, se non ti attieni.
Semmai, per una volta non è una donna a subire, e ci domandiamo se il  rifiuto indignato a una conversione forzata, anche se solo sulla carta, avrebbe scavalcato i confini patrii se si fosse trattato di una cittadina francese, anzichè di un cittadino. Magari in Francia è diverso, ma da noi le ragazze e donne costrette a subire per motivi presunti di fede sono tante, al punto che non ci facciamo più caso.



Ma c’è un’osservazione aggiuntiva, che ci preme sottolineare, tra le righe di una notizia d’agenzia rilanciata dall’Ansa nostrana. Monsieur Gilbert, il protagonista della storia, rifiuta di firmare il certificato gentilmente offertogli dalle autorità municipali, in ottemperanza ai rapporti bilaterali col governo marocchino. “Perché è contrario allo spirito della Repubblica Francese”, ha detto orgogliosamente. E ha ragione. Difende una storia, una cultura. Peccato che quella storia e cultura siano fondate non solo sull’esprit della République, com’è nata da Rivoluzione e successivi passaggi, ma anche sulla fede cristiana, che ha unificato e dato un’anima  a quell’accozzaglia transalpina  di latini e galli e incursioni  di vandali e germani. 

Magari il nostro giornalista non è cattolico, si dirà. Non importa, la verità è una, e vale per tutti: la république onora la persona, ma perché qualcuno ha insegnato a onorarla, a considerarla unica e irripetibile, a considerarla la base della politica, dell’opera sociale. Quante conversioni forzate, raccontano i professori delle medie, e Carlo Magno, che obbligava al battesimo con la spada? Terribile, sbagliato, e parliamo di 1.200 anni fa. Ma nessuno ha mai scritto che fosse giusto, nessuno l’ha mai  messo nero su bianco per fondare la costituzione del paese.

Se i cristiani si sono macchiati di atrocità, l’hanno fato per il loro peccato e l’abisso della loro malvagità, non perchè la loro fede o ideologia glielo chiedesse. Per questa incoscienza, questa tiepida o nulla consapevolezza della nostra storia ci facciamo imbonire, e con la scusa del dialogo sottoscriviamo patti iniqui come quelli che prevedono il cambio di religione per sposare una cittadina di un altro paese. Cari amici del Marocco, da noi trovate le vostre moschee, siete liberi di sposare chi vi pare, di frequentare le nostre scuole, di vestirvi come volete, con o senza veli (basta non celare del tutto la propria identità, per forza), noi non concepiamo la logica dell’occhio per occhio. Chiamiamola reciprocità, che ne dite? E se chiedessimo un atto di Battesimo a  tutti i vostri immigrati, per concedere il permesso di soggiorno? Ah già, noi non possiamo, noi. Siamo figli della Ragione che ha illuminato l’oscurantismo della religione che opprime i popoli, noi.