I fatti sono noti: un bambino di 10 anni portato via con l’intervento delle forze dell’ordine, durante la scuola, perché doveva essere allontanato dalla madre per decreto del giudice. Tutti, dal Ministro all’uomo di strada, sono colpiti dal video, ovviamente rilanciato da tutti i canali televisivi, che riprende questo allontanamento violento e coatto.



E viene subito da dire: di chi è la colpa di tutto questo? Chi ha ridotto un ragazzo a dover fare questa triste, drammatica, lacerante esperienza? E’ la domanda che mi sono fatto io per tanti anni quando ragazzini come questo arrivano a Ca’ Edimar. Come se l’inquietudine di fronte a questi ragazzi, privati della cosa più naturale che ci sia – la loro famiglia – avesse origine dal fatto che qualcuno ha sbagliato facendo pagare loro colpe che non hanno… Certo, è un’ingiustizia che pesa… non ho pudore a chiamare questi ragazzi “vittime innocenti” di errori e sbagli commessi da altri, da noi adulti. Ma questa inquietudine non è appagata nemmeno dall’individuare colpe e responsabilità.



Se siamo leali con noi stessi, se non ci blocchiamo in forza dello sgomento e del dolore che fatti come questi ci provocano, dobbiamo accettare la sfida che situazioni come queste pongono all’animo umano che desidera conoscere il mistero dell’esistenza. Questa sfida, che oggi mi è ritornata evidente, è la cosa più vera che ho imparato in questi anni di accoglienza e condivisione di questi ragazzi così segnati. Accettarla significa non fermarsi alla domanda – pur umanamente comprensibile – di chi sia la colpa e come fare perché fatti come questi non accadano più.

E’ giusto e ragionevole far nascere una persona, mettendola nel rischio di dolori anche atroci, di umiliazioni e fatiche, se ciò che si mette al mondo non avesse un destino buono, un destino di felicità? Questa è la domanda più profonda, più aperta alla sfida del mistero della vita, la domanda che fa capire perché c’è in noi questa inquietudine.



Quando guardo un ragazzo che sembra una parete liscia che ti dice “aggrappati se sei capace!” , quando tutto di lui ti dice del male e delle contraddizioni in cui è immerso o è stato immerso, da dove parti perché l’inquietudine che ti nasce non si trasformi in cinismo o si riversi in una meccanica procedura di intervento sociale ormai collaudato?

Mettere al mondo dei figli è la cosa più grandiosa per la quale Dio ha fatto il creato; ma, anche senza esserne coscienti del tutto, noi li mettiamo al mondo perché ci portiamo addosso la consapevolezza, inscritta nel nostro cuore, che essi sono fatti per un destino buono, per la loro felicità. Per questo ciò che diventa importante nella vita è che loro possano realizzare quello per cui la loro madre li ha messi in vita.

Se potessi incrociare il volto di quella madre sconvolta e arrabbiata perché le è stato portato via il figlio o di quel padre a cui il giudice ha deciso invece di affidare il figlio, vorrei che tutti e due, ora così distanti, potessero fare esperienza di una energia nuova di comportamento, di ricerca di soluzioni: quella che nasce dalla consapevolezza che ogni figlio è segnato da questo destino buono, anche se un padre e una madre fossero messi nelle condizioni di non poter far niente per lui. 

Se non c’è la promessa della felicità, il dolore è assurdo, le ingiustizie sono insopportabili, le devianze incorreggibili (cioè non si possono reggere); se c’è la promessa della felicità anche le esperienze più terribili sono un passaggio che sfida e che chiama ad una responsabilità più grande. Ma oggi chi ci promette questa felicità, chi ci svela un destino buono per noi e per i nostri figli?