La vicenda del bimbo di Padova portato via a forza da scuola dal padre e dalla polizia, che ha tenuto banco su tutti i media in questi ultimi giorni, suscita in me alcune riflessioni. Se ci si ferma all’impatto emotivo dato dalle immagini del piccolo trascinato via (che tanto scandalo hanno suscitato) senza considerare la vicenda nel suo complesso, il rischio è quello di un giudizio sentimentale e superficiale. Innanzitutto, va considerata la vicenda giudiziaria pregressa. Chi, come me, ha avuto modo di vedere non pochi casi di separazione e divorzio in vent’anni di frequentazione delle aule giudiziarie, sa bene che i casi in cui un minore viene tolto dal Tribunale alla madre per essere collocato presso il padre sono rari, e riguardano ipotesi in cui, in base agli accertamenti effettuati dai giudici, la permanenza presso la madre recherebbe pregiudizio allo sviluppo psicofisico del minore.



Nel caso di specie, vi sono stati plurimi procedimenti e accertamenti da parte dei competenti organi giudiziari, all’esito dei quali è stato stabilito che l’interesse (leggasi il bene) del minore era quello di essere collocato presso il padre, previo un periodo di temporaneo soggiorno presso un istituto, ove fosse seguito e preparato alla nuova situazione. La madre non ha accettato le decisioni dei giudici, tant’è che il padre, dopo innumerevoli tentativi e richieste, è ricorso alla forza pubblica onde far eseguire il provvedimento. Risulta che siano stati fatti, prima dell’esecuzione dello scorso giovedì, due tentativi di prelevare il piccolo a casa della madre, ma senza risultato, onde la decisione di effettuare l’operazione in “territorio neutro”, ossia presso la scuola. E qui, la scena a tutti tristemente nota.



Coloro che si sono scandalizzati per le modalità (oggettivamente molto maldestre) con cui il bambino è stato portato via non sembrano, però, essersi ugualmente scandalizzati del comportamento della zia materna, che – mentre filmava per tutto il tempo il nipote – urlava istericamente il suo nome per suscitare la reazione del piccolo e inveiva in modo ben poco urbano contro la polizia e il padre; questo senza minimamente considerare il turbamento che il suo comportamento contribuiva a ingenerare nel nipote che, forse, in assenza di questo “contorno”, sarebbe stato molto più tranquillo; né vi è stato particolare scandalo per la reazione della madre, che non ha esitato a diffondere le immagini e le notizie senza preoccuparsi che il bimbo potesse essere facilmente identificato, sottoponendolo così a una sovraesposizione mediatica che difficilmente gli gioverà. 



È stato detto da molti (partendo dalla suggestione delle parole dei familiari) che “i bambini hanno una voce” e che “i bambini vanno ascoltati”; se questo è vero in linea di principio, occorre fare attenzione a non confondere la considerazione certamente dovuta al minore (che spetta però alla sede giudiziaria, in cui vanno effettuati tutti gli accertamenti e gli approfondimenti del caso) con il demandare al minore stesso le scelte relative alla propria vita: un bambino di dieci anni non è in grado di valutare quale sia il bene per sé, né potrebbe sopportare il peso di dover operare una simile scelta.

A chi opera nel settore del diritto di famiglia si pone spesso, purtroppo, il problema dell’esecuzione di provvedimenti come quello che ci occupa, perché da un lato ci si trova di fronte a decisioni che non dettagliano a sufficienza le loro modalità di attuazione, dall’altro il genitore che “subisce” la decisione fa generalmente strenua opposizione (e qui viene da chiedersi come mai le decisioni dei nostri tribunali non abbiano più da tempo l’autorevolezza necessaria per ottenere un’esecuzione spontanea); la forza pubblica viene, così, interpellata in sede di esecuzione senza avere spesso né gli strumenti, né la preparazione idonea, né un chiaro protocollo specifico. Occorrerebbe un intervento che colmasse il gravissimo vuoto in cui gli operatori si stanno muovendo da troppo tempo, o a livello legislativo, o a livello di prassi giudiziaria uniformata, così da evitare il ripetersi di scene come quella che ci è stata sottoposta con il filmato in questione, che lascia a dir poco sconcertati.

Fatte queste considerazioni, la domanda che mi sorge è questa: in un caso del genere, in assenza di strumenti adeguati con i quali intervenire, corrisponde maggiormente al bene di un bambino lasciarlo permanere in un ambiente che l’autorità giudiziaria ha riconosciuto inidoneo, come dobbiamo presumere, al suo sereno sviluppo psicofisico, onde non “forzarlo” e rispettare la sua sensibilità, oppure prenderlo al limite anche di peso, pur di sottrarlo a quell’ambito che, secondo la valutazione dei giudici, lo danneggerebbe?