Si tratta di una decisione ardita, con conseguenze inaccettabili sul piano umano, etico, logico e giuridico.
La vicenda riguarda un medico che non ha adeguatamente informato una coppia sulle possibili patologie cui il feto poteva essere affetto. Il bambino è poi nato con sindrome di down e i genitori hanno chiesto il risarcimento del danno al medico. In questo caso si è stabilito che anche il bambino ha diritto ad un autonomo risarcimento di danno.
Il ragionamento è il seguente: poiché la madre, avanzando in giudizio la lesione alla sua salute psico-fisica, ha il diritto di impedire la nascita di una persona con disabilità, ove questo diritto non sia effettivamente esercitato a causa della mancata informazione medica, non solo la madre ma anche il bambino, la cui esistenza è segnata, ha diritto al risarcimento del danno.
Già, ma di quale danno stiamo parlando? Il bambino, a ben leggere la sequenza degli eventi, non è stato danneggiato, essendo già in utero affetto dalla sindrome di down e, dunque, non può addurre la pretesa di una violazione al suo diritto alla salute, già compromesso sin dal concepimento e non certo provocato dalla mancata informazione del medico.
In realtà con la sottile espressione di dire che il danno consiste nella “nascita malformata, intesa come condizione dinamica dell’esistenza riferita ad un soggetto di diritto attualmente esistente” (sono le parole che utilizza l’estensore della sentenza), si finisce per inquadrare l’inizio dell’evento dannoso nel fatto stesso della nascita così cadendo nella dinamica di un c.d. “diritto a non nascere”, che – almeno a parole – la Cassazione nelle sue 76 pagine avrebbe voluto sgomberare dal campo.
In realtà la decisione centra in pieno l’esito che decenni di giurisprudenza italiana sul tema erano riusciti ad evitare, facendo riemergere questo ragionamento finora scongiurato: sono nato con alcune disabilità e se lo avessi saputo avrei preferito non nascere; poiché tu medico non hai allertato i miei genitori – i quali, sapendo della mia sindrome, non mi avrebbero fatto nascere – ora ti chiedo il risarcimento del danno.
Il danno è quello di una vita insopportabile anziché la sua soppressione. E, tra l’altro, giudizialmente parlando, lo reclamano, non il bambino, ma i suoi genitori.
Si ribalta così la lettura della legge 194 sull’interruzione della gravidanza che attribuisce il potere del bilanciamento tra vita del feto e lesione psico-fisica della salute della donna proprio a quest’ultima. Con la conseguenza che eventuali danni (la nascita indesiderata) non possono che discendere solo dalla violazione di questo potere di bilanciamento proprio della scelta della donna, ma non certo da un presunto diritto alla salute di un feto, poi bambino che, nel caso, è già menomata sin dal concepimento.
Persona e vita sembrano cioè viaggiare su binari distinti. Entra prepotentemente in gioco una sorta di diritto alla “non vita”, che viene fatto valere non dal suo presunto titolare (cioè il bambino) ma dai genitori. Questa però si chiama eugenetica e i giuristi, credenti o non credenti che siano, non possono tacere.
Se, infatti, la linea della Cassazione trovasse terreno fertile nelle decisioni successive, l’inevitabile conseguenza logica sarà che d’ora in avanti qualsiasi persona con disabilità andrebbe valutata in modo diverso a seconda che la sua esistenza sia frutto di una libera scelta dei genitori e, dunque, mai potrebbe reclamare un risarcimento; mentre ove ciò sia frutto di un errore di informazione medica, la persona disabile andrebbe risarcita “affinché quella condizione umana ne risulti alleviata, assicurando al minore una vita meno disagevole” (di nuovo parole dell’estensore della sentenza). Dunque, seguendo l’illogico ragionamento della Cassazione davanti ad uno stesso evento dannoso avremmo due trattamenti diversi con evidente discriminazione.
In definitiva è una decisione che svilisce il ruolo del diritto e ne capovolge la logica: da strumento di protezione delle persone, si piegano la legge civile e la tutela risarcitoria a compiti impropri che rischiano di comprimere la lettura sociale della vita delle persone con disabilità entro limiti angusti, in totale distonia con la ricchezza umana, sociale e solidale che entro tali relazioni interpersonali quotidianamente si rappresentano.