Cosa appassiona di più gli italiani, nel senso di discussioni al bar? Certamente il calcio, ma subito dopo, anziché la politica, che sembra in caduta libera anche nei temi del tempo libero, c’è la cucina. La guida del Gambero Rosso, uscita in questi giorni, ha escluso tra i vertici della pizza quella napoletana. Tutto ciò non poteva che sollevare un polverone. E così è stato, anche perchè l’affronto non è da poco: le migliori pizzerie, secondo la guida, sarebbero nel Veronese. O meglio, la miglior pizzeria d’Italia sarebbe I Tigli di San Bonifacio di Simone Padoan.



Detto questo non posso esimermi dal fare alcune considerazioni. La prima è la seguente. Se ad occhi chiusi dovessi indicare la miglior pizza dell’anno – udite udite – andrei proprio a due passi da Verona o meglio a San Martino Buon Albergo da Renato Bosco (nella foto) da Pizzadaré + Saporé. Inoltre posso dire che di Simone Padoan ho già tessuto le lodi in tempi non sospetti. Dunque per me il primato veronese è tutto meritato. La seconda considerazione mi porta indietro di almeno 14 anni, quando era vicecuratore della guida ai ristoranti d’Italia de l’Espresso e andai a Napoli a provare le pizzerie. Come ne uscii? Deluso.



Deluso almeno quanto la prima volta che andai a Napoli quando pensavo che la pizza fosse considerata anche un cibo da strada da mangiare a qualsiasi ora. Non la trovai. In provincia di Salerno, dietro la famosa Costiera, c’è poi un’enclave, che si chiama Tramonti, che ha dato i natali a 3.000 pizzaioli sparsi per il mondo. Il Comune ha accettato di fare la De.Co. della propria pizza, ma se dovessi dire, la miglior pizza di Tramonti io l’ho assaggiata ad Asti, alla pizzeria dei fratelli Francese, che sono originari di quel paese, ma non lavorano in loco.

È un tradimento? No, il tradimento è forse dei pizzaioli napoletani che si sono seduti sull’alone della loro notorietà e di un certo mito, alimentato dalle visite celebri (ricordate Clinton? E quante pizzerie de O Presidente ci sono in città?). Certo è sbagliato generalizzare, perchè altrimenti si escluderebbe un volenteroso come Gino Sorbillo, nella cui pizzeria, nei giorni scorsi, si è svolto un raduno di protesta di Napoli verso Verona; ma il messaggio che esce da questa storia è chiaro: la tradizione non può essere una faccenda statica, perchè col tempo diventa una presa per in fondelli. La tradizione ha bisogno di innovazione e anche di quell’irrinunciabile qualità che va al passo coi tempi. Simone Padoan, ma anche Renato Bosco hanno innovato, delusi di vedere quelle pizze stanche, servite in ogni dove, senza che si potesse alzare il livello di una ricetta grandiosa. Lo scorso anno, sotto la regia di un grande come Corrado Assenza del Caffè Sicilia, partecipai ad un momento dell’università della pizza (guarda a caso sempre in Veneto): qui una sessantina di pizzaioli di ogni dove si sono messi a confronto, davanti a una giuria di giornalisti, del Nord come del Sud, di Milano come di Napoli. E sembrava di essere in un altro mondo, rispetto agli assaggi consueti che della pizza si possono fare.



Girando sui blog, mi ha poi colpito leggere i commenti di Massimo Piccolo, scrittore e regista napoletano, autore di “90 passi nella gastronomia napoletana” (Neapolis Alma) che ha commentato “Lo schiaffo di Verona”. E dice: “C’è poco da fare, la pizza ormai non è più solo napoletana. E anche in Italia, guide a parte, i consumatori non sono pronti a stracciarsi le vesti se gli viene servita una pizza croccante (tipo romana) o alta (tipo focaccia). Anzi, e la questione dell’affronto di Verona sembra esserne un ottimo esempio, la tendenza per la pizza “gourmet” (quella che cerca di coniugare la pizza con l’alta cucina) sta facendo sempre maggiori proseliti”.

Dice ancora Piccolo a Repubblica: “Nel lungo tour che ho compiuto lo scorso anno per il mio piccolo viaggio gastronomico, il momento più sconcertante è stato trovarmi nelle storiche pizzerie napoletane dove quasi mai mi è successo di poter mangiare una vera pizza da disciplinare: una aveva il cornicione basso (deve essere alto 12 centimetri), un’altra l’aveva croccante (deve essere fragrante), una non l’aveva per niente, un’altra aveva di croccante il centro (deve essere morbido ed elastico), una metteva il pecorino, l’altra il parmigiano, una la mozzarella di bufala… e allora mi chiedo, fino a quando le cose staranno così, come potrà il pur volenteroso gastronomo veronese in gita a Napoli apprezzare la grande differenza tra una vera e nobile pizza napoletana e una semplice “tre spicchi” della guida?”.

La morale di tutto questo bailamme è dunque che il re è nudo. Io credo che Napoli debba ringraziare per questo schiaffo, perchè può rappresentare la messa in moto di un nuovo processo virtuoso: anche Napoli è in gara, come tutte le cose che hanno a che fare con il mercato.

Una grande pizza non è tale solo per il luogo dove viene prodotta: necessita di materie prime selezionate, di cura dei particolari, di lievitazioni pazienti, insomma di amore non solo a parole. Che sia questa la vera innovazione?

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