Le ultime settimane hanno scoperchiato tante vergogne, e all’orizzonte già s’intravede una nuova bufera mediatico-giudiziaria, degna dei primi anni novanta. Una nuova ondata di scandali ha percorso l’Italia da Reggio Calabria alla Lombardia, alimentando la rabbia di un paese colpito da una regressione culturale che, ormai da anni, immobilizza e divide la società. Non è più possibile sedare il fenomeno corrosivo che sta emergendo, senza prendere atto della sua gravità, sebbene un’analisi sociopolitica non sia abbastanza: è insufficiente individuare la radice dei problemi o, almeno, alcuni attori che recitano nel teatro dell’assurdo italiano, senza che gli appigli con cui riemergere dall’apnea culturale non siano posti al centro della discussione pubblica. Si perde troppo tempo per salire sulla giostra mediatica che ha illuminato il marcio, dove si rincorrono i più disparati spettacoli circensi, inseguendo una seconda tangentopoli. Fosse anche tutto vero, ancora una volta l’attenzione è occupata dagli scandali, più che dalle prospettive di rinnovamento del paese.
Intanto, per condire il circo della mala società, si rivangano l’alpha e l’omega, dal dibattito sull’autonomia regionale in forza di un nuovo centralismo – con annesse chiose sulla questione meridionale –, alla perpetua cantilena sullo stato di moralità del paese, scritta e diretta da chi continua a inventare – con nostalgia – un paradiso terrestre mai visto. Intanto molti continuano a lanciare pietre con le mani pulite, sventolando il fantasma di Mani pulite. Si dovrebbe fare attenzione quando si evocano i fantasmi, soprattutto quelli di tangentopoli: chi ha potuto vivere quegli anni sapendo cosa stava succedendo, ha già dei figli che lo guardano e osservano il mondo, per imparare il mestiere di vivere. E alla luce dei risultati, i genitori potrebbero riflettere se una nuova tempesta di odio sia la giusta lectio da mostrare ai propri figli, chiamati a costruire l’Italia che verrà.
Oggi la bestia del populismo è più radicata che mai e la società sembra non aver colto il valore di una storia come Mani pulite, che avrebbe dovuto insegnare all’opinione pubblica (e alla classe dirigente) che le tifoserie da contrada non c’azzeccano con il rinnovamento di un paese civile. E non è un caso che l’illusione della piazza pulita abbia registrato presto pesanti sconfitte: durante tangentopoli furono inquisite quasi 3000 persone in due anni, molti processi sono caduti in prescrizione e un terzo degli indagati è stato condannato. Così non è stato, però, per l’arretratezza del sistema della giustizia e per l’abuso di alcuni metodi d’indagine, fra i quali la carcerazione preventiva, ormai strumento pedissequo di pressione e di persuasione.
La favola dell’inchiesta che doveva cambiare l’Italia è stata perpetrata nel tempo, che ha svelato la debacle della campagna legalitaria nata e alimentatasi da Mani pulite: la lezione non è servita, mentre la gioventù a imparato a dare credito agli strilloni populisti. Anche la Corte dei Conti, nelle relazioni presentate quest’anno, ha dimostrato l’involuzione della legalità e l’ininfluenza di tangentopoli: la corruzione si attesta sui 60 miliardi di euro e l’evasione fiscale ha raggiunto un valore che si avvicina al 18% del pil.



I numeri dispiegano una conclusione che i media riportano senza mettere a fuoco con decisione: fatte le dovute eccezioni e riconosciute le migliori eccellenze, è evidente che i problemi che appesantiscono il paese sono culturali, nonché radicati nella mentalità con cui gli Italiani (noi) si muovono e agiscono; ma se un popolo è portato a corrompere e a farsi corrompere, a evadere le tasse e a non pagare le multe, le responsabilità non possono essere solo della società: la pressione fiscale è diventata asfissiante, la macchina statale costa troppo, con carenze pesanti in termini di efficienza, tanto da apparire ormai come un investimento controproducente. Per questo ridurre il dramma a una perversione della politica è quantomeno inutile, se non dannoso, perché il sistema corrotto esiste di sicuro, ma non è soltanto quello politico (forse il più acuto e fotografato). Il problema è un “sistema Italia”, nato in risposta a problemi irrisolti da decenni, e a un totalitarismo della macchina statale che, spesso, non ha fatto i conti con la realtà, come dimostrano l’educazione di Stato e le politiche del lavoro. 
Distrutte le mura del palazzo dei ladri, arriverà comunque il momento in cui scegliere da dove partire per edificare un paese che, da lungo tempo, non è più Stato. Se l’Italia si accontenterà dei capri espiatori, allora una nuova tangentopoli appagherà la fame di risentimento. Ma basterebbero pochi secondi per capire che, se le mura della città si ricostruiscono in pochi anni, l’umanità di un popolo tirato su a pane e gogne mediatico-giudiziarie richiede molto più tempo.

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