Amo le parole; sono così inconsistenti, sono volatili e umbratili. Sono meno di una pennellata, solo un segno grafico o, come queste, un pugno di pixel. Ma hanno bisogno di labbra per essere pronunciate e di cervelli per essere comprese; sono capite anche dai sordi, sono i mattoni dei poeti. Con cui si costruiscono intere cattedrali.
Credo che le parole abbiano una forma propria, modellata dalla lingua dei padri, dagli eventi, e il loro stesso suono (che ha una dimensione, addirittura un’emozione) è come l’olio essenziale del significato, soprattutto quando sono molto antiche.
Certe quando le sento mi provocano un’ondata di nausea: “femminicidio ”è una di queste. Se dico “omicidio” sento il latino della coltellata e vedo l’essere umano che cade: è totalmente diverso invece il “femminicidio”, ancora più orribile, se possibile. È rivoltante. Nei due sensi, attenzione: mi si rivolta lo stomaco e anche il cuore, mi devo ribellare a quest’idea che si debba separare il concetto di morte violenta per mano di un essere umano nei confronti di un altro essere umano che è (diversamente?) una “femmina”.
Beh, io mi offenderei un poco se mi chiamassero femmina, io sono una donna, una madre, mia figlia è la mia bambina, le sue amiche delle ragazzine, ho due sorelle… sono così belle queste parole femminili. Sono tenere e profumate, soprattutto quelle che riguardano le fidanzate, le donne amate: avete presente le parole dei dialetti? Da noi c’è la morosa, la tosa, la pùtela. La me dòna. La me pòpa.
E sono queste che vengono uccise. Sono le nostre amate, non le nostre femmine. Vengono continuamente uccise, sistematicamente, se guardiamo la cronaca nera solo in Italia è notizia ricorrente, quasi quotidiana. Impressionante.
Ma noi italiani amiamo le nostre donne? Ma voi ci amate davvero? È di ieri il fattaccio, l’ennesimo, a Palermo; un ragazzo di soli 23 anni ha atteso la sua ex-ragazza sotto l’androne di casa sua, al ritorno da scuola, nel mezzogiorno mite siciliano. Sono arrivate insieme, le due sorelle, Lucia e Carmela e la seconda, per difendere la più grande dalla violenza del giovane uomo, si è messa in mezzo, si è presa il fendente mortale. Quello che si dice dare la vita per i fratelli…
Ero appena ventenne quando successe un fatto analogo nella mia piccola città: un androne, una ragazza che torna da scuola (una mia compagna di scuola) il cui nome non dimenticherò mai, e un coltello in mano a un ragazzo (conoscevo anche lui). Per noi, alunni tutti dello stesso istituto, quel budello di strada ha cambiato nome.
Sono passati vent’anni e quel ragazzo è tornato libero; i giornali ne hanno dato notizia sommessamente, come quelle poche parole che aveva pronunciato dopo il fatto, perfettamente allucinato, sconfitto, mentre guardava a sé come un estraneo. Me lo ricordo bene: quante volte ne abbiamo parlato, con i professori, con i genitori, tra di noi. Maschi e femmine, naturalmente, perche tutti noi eravamo ugualmente storditi.
Le risposte le vogliamo lasciare agli esperti, agli psicologi o ai criminologi. A noi resta il dolore. L’abbraccio, il sale delle lacrime, il banco vuoto e quei genitori di lei che invecchiano assenti, i genitori di lui che abbassano lo sguardo e evitano di passare in città. Ci resta il dubbio, il tremito di chi si è sentito sfiorare dal delitto. I nastri tirati dalla Polizia sui luoghi insanguinati.
La linea rossa del possesso: questo mi è rimasto impresso. Forse, dico forse, lui si è impossessato di lei al punto intollerabile di uscire di senno, anima senza casa, anima presa. Anima inseparabile, la morte piuttosto che non sia più mia. Verrebbe da dire: diabolico. Perchè noi siamo fatti per essere presi, soprattutto noi donne; accarezzate da uomini che ci “prendono” e fanno di noi una sola carne; la moltiplicazione della carne e dell’amore noi la conosciamo diventando madri. E la prima cosa che capiamo quando ci nasce un figlio è che non è nostro. Ci è dato.
Ma abbiamo bisogno di essere prese, presi, di una presa sicura, di un amore che ci tiene. Ma che non ci possiede. Abbiamo bisogno della libertà. Ma un amore tale è possibile davvero da parte di un uomo? Sì, se lui ci ama come Dio. “Vorrei volerti bene come ti ama Dio” cantava Chieffo, il grande amico. Lui ci ama come un padre: noi donne abbiamo bisogno di padri. Le nostre figlie hanno bisogno di padri, quelli che dicono ai ragazzotti “Guai a te se la tocchi”. I nostri figli hanno bisogno di padri che insegnino loro a amare noi donne. Siamo in una società che lamenta l’assenza dei padri: è sotto i nostri occhi.
Per piacere, non usiamo la parola “femminicidio”, crudele e menzognera. Un uomo per uccidere una donna ha già ucciso il padre che è in lui.