La fondazione Costruiamo il Futuro, di cui è presidente l’onorevole Maurizio Lupi (Pdl), ha voluto dare un suo contributo all’Anno della Fede: una mostra su Tommaso Moro, statista, giurista e letterato, morto decapitato nel 1535, che la Chiesa ha voluto santo (è stato canonizzato nel 1935) e Giovanni Paolo II protettore dei politici e dei governanti (è stato proclamato tale il 31 ottobre del 2000). Curata dal professor Edoardo Rialti e inaugurata alla Camera dei deputati dal presidente del Consiglio Mario Monti il 23 ottobre 2012, la mostra ha un titolo suggestivo: “Il sorriso della libertà – Tommaso Moro, la politica e il bene comune”. Resterà esposta a Montecitorio sino al 31 ottobre, poi diventerà itinerante (dal 9 al 22 novembre sarà a Milano nella Chiesa di San Sepolcro della Pinacoteca Ambrosiana) e verrà ospitata nei Palazzi del Vaticano in occasione della giornata mondiale dei politici durante l’Anno della Fede (la data è ancora da definire).
“La mostra su Tommaso Moro – dice al Sussidiario il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi – è un segno, l’indicazione di un testimone che ci aiuta a comprendere ciò di cui abbiamo più bisogno oggi in politica”.
Un santo protettore?
Sicuramente, visto l’andazzo. Ma al di là delle facezie, bisogna sempre chiedersi il perché delle decisioni solenni della Chiesa. Quando Giovanni Paolo II ha proclamato Tommaso Moro patrono dei politici e dei governanti l’ha definito “statista”. E’ uno dei pochi uomini politici cui si possa attribuire con piena cognizione questo titolo.
Perché?
Perché, come ha ricordato il presidente Monti all’inaugurazione della mostra, ha posto il bene comune, quindi il bene di tutti i cittadini non solo quello dei suoi elettori (nel suo caso si trattava del re) come culmine della sua responsabilità. Salvo una postilla, il valore della coscienza e della verità.
La sua pretesa di impedire a Enrico VIII le nozze con Anna Bolena a molti può sembrare un’indebita ingerenza della Chiesa nella politica.
E invece è la più limpida testimonianza della separazione delle due sfere. Tommaso Moro non aveva nulla da ridire sulla successione al trono, il re e il Parlamento potevano liberamente decidere. Riteneva però che il potere politico non potesse arrogarsi il diritto di deliberare su un matrimonio celebrato dalla Chiesa. Testimoniò questa fedeltà alla coscienza e alla verità con il silenzio e con la rinuncia al potere.
Pensa che si possa chiedere questo ai politici di oggi?
Non è solo questione di testimonianza personale e di particolare coraggio, ricordiamo che pagò questa sua fermezza con la vita. La sua vita politica prima e la sua rinuncia al potere poi ci obbligano a riflettere sui fondamenti della democrazia. Il ministro Ornaghi al convegno di presentazione della mostra ricordava una sua frase, che cito a senso: “Se il Parlamento dice che Dio non è Dio io sono tenuto a crederci?”. Se la democrazia si fonda solo sul consenso popolare o sul favore del re, prima o poi finirà. Solo una tensione ideale, quella che Moro chiamava la fedeltà a Dio, fonda la fedeltà al re.
Non le sembra una posizione datata?
Benedetto XVI ha attualizzato l’urgenza di questa posizione nel discorso a Westminster Hall durante il suo viaggio in Gran Bretagna nel 2010. Ha detto: “Ogni generazione, mentre cerca di promuovere il bene comune, deve chiedersi sempre di nuovo: quali sono le esigenze che i governi possono ragionevolmente imporre ai propri cittadini e fin dove possono estendersi? (…) Se i principi morali che sostengono il processo democratico non si fondano, a loro volta, su nient’altro di più solido che sul consenso sociale, allora la fragilità del processo si mostra in tutta la sua evidenza. Qui si trova la reale sfida per la democrazia”.
In Italia oggi molti si accontenterebbero di buoni amministratori della cosa pubblica.



Per amministrare bene una società ci vuole un’idea di società. Non basta, anche se è necessario, il pareggio di bilancio. La politica, anche quella economica, ha a che fare con la vita; e la vita è sviluppo, crescita, individuazione e promozione dei soggetti sociali che tengono vivo un Paese: le imprese, le famiglie, il welfare della sussidiarietà. Non basta la somma zero nei conti dello Stato. Zero più zero segnala un perfetto equilibrio… mortale. 
E la fede cosa c’entra?
C’entra non perché dà prescrizioni, perché detta le leggi. Il Papa, sempre in quel discorso, diceva che il ruolo della religione nel dibattito politico è quello di “aiutare nel purificare e nel gettare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei principi morali oggettivi”. Questo per me vuol dire non una vaga ispirazione in certi valori ma il costante riferimento a un luogo, la Chiesa presente nella storia, in cui vengo continuamente educato. La creatività nel trovare soluzioni è affidata alla mia libertà e alla mia responsabilità; Tommaso Moro dimostrò di essere un grande giurista e un efficiente uomo di giustizia: da presidente del tribunale esaurì tutti i processi pendenti, e fu un fatto clamoroso anche allora. Come vede niente di nuovo sotto il sole. Ma vorrei riprendere il discorso da dove l’abbiamo iniziato, Tommaso Moro politico e santo ci aiuta a comprendere quello che oggi più ci serve: avere un luogo dove quotidianamente essere educati alla tensione ideale che sola può dare moralità alla politica.

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