Ha avuto perfettamente ragione Mons. Silvano Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede all’Onu, a criticare con forza la risoluzione recentemente varata a Ginevra dal Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani sulla Mortalità e morbilità materna prevenibile e i diritti umani. È un testo, ha spiegato Mons. Tomasi, pieno di ambiguità, che ricollega la mortalità materna alla negazione dei suoi diritti riproduttivi, ignorando quelle che sono le reali cause del tristissimo fenomeno e che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha da tempo individuato in una serie di fattori strettamente medici (infezioni, emorragie, dinemiche di alta pressione durante la gravidanza) e più generalmente sanitari (carenza o fragilità delle strutture sanitarie, ambiente medico insano, scarsa professionalità medica e paramedica, ecc.). Mettendo al centro del discorso la discriminazione contro le donne e la negazione dei suoi diritti riproduttivi il Consiglio dell’Onu ha indubbiamente portato un ulteriore contributo a quel processo di piena legittimazione mondiale dell’aborto, che ha preso le mosse dagli anni Settanta del secolo scorso e che non ha mai conosciuto da allora battute d’arresto.



1. Denunciare l’unilateralità, le ambiguità e – perché non dirlo ad alta voce? – le ipocrisie di un testo che si avvantaggia dell’alto prestigio dell’Onu è tanto doveroso, quanto arduo: lo dimostrano la scarsa risonanza che esso ha trovato nella nostra stampa (con la felice eccezione di Avvenire) e i maldestri tentativi della Rappresentanza italiana presso il Consiglio ginevrino, che ha insistentemente richiamato l’attenzione sul fatto che nella risoluzione la parola “aborto” non compare mai. Il che è verissimo, ma appartiene a quella particolare categoria di verità, che assume un dato estrinsecamente linguistico come rappresentativo di una realtà empirica e sociale: anche nella legge italiana sull’aborto, la 194 del 1978 la parola “aborto” non compare mai, ma solo la locuzione Interruzione volontaria della gravidanza; né la parola “divorzio” trapela mai nella nostra legislazione, che preferisce parlare di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. Le parole non esistono per salvarci l’anima; siamo piuttosto noi che dobbiamo salvare il linguaggio che utilizziamo, se non per il bene della nostra anima, almeno per quel bene che è (per chi riesce a percepirlo) la nostra onestà intellettuale. 



2. Resta da chiederci perché in documenti internazionali di così indubbia rilevanza si continui a portare avanti una politica filo-abortista, senza volerlo dichiarare esplicitamente. Le ragioni possono essere molte e molto diverse e tra le tante quelle che per lo più vengono ammesse (sia pure a bassa voce) fanno riferimento ad una sorta di pedagogia politica internazionale, che starebbe molto a cuore all’Onu: poiché non tutti gli Stati avrebbero raggiunto quel livello di maturità socio-politica che dovrebbe indurli a riconoscere la definitiva liberazione del genere femminile dalla storica oppressione maschilista, è opportuno che le Nazioni Unite, orientate dagli Stati più illuminati, si muovano con cautela, ma allo stesso tempo con fermezza. Piccoli passi, quindi, ma irreversibili. 



Un simile processo dovrebbe, alla fine, portare al pieno riconoscimento che è diritto esclusivo delle donne decidere se fare figli o no, decidere quando farli; decidere quanti farne e, infine, decidere sempre e comunque unilateralmente se accettare o non accettare la gravidanza,  anche se liberamente voluta e priva di ogni rischio patologico. Se questo è l’obiettivo finale, l’attuale insistenza sulla riproduzione come diritto individuale femminile (lasciando cadere ogni riferimento alla realtà di coppia, per non parlare della realtà coniugale) può avere la massima efficacia se il discorso viene ricondotto al paradigma della cosiddetta salute riproduttiva. Non c’è dubbio, infatti, che il tema della salute sia ormai divenuto l’unico autentico universale del nostro tempo.

3. La rimozione di ogni riferimento esplicito all’aborto non è comunque cosa esclusiva del nostro presente. Chi studi l’aborto in prospettiva antropologica acquista ben presto la consapevolezza del rilievo di alcuni, pochi, punti fondamentali:

A. l’aborto è una pratica universalmente conosciuta in tutte le culture; b. l’aborto è sempre stato ampiamente tollerato, ma nello stesso tempo è sempre stato oggetto di rimozione, di deplorazione o di riprovazione sociale;  c. non è mai esistita, in nessuna cultura, e nemmeno nella nostra che pur lo ha generalmente legalizzato, un’adeguata elaborazione simbolica dell’aborto; d.  non è possibile ricondurre l’aborto – come esperienza universale, ma priva di espressione simbolica − a dinamiche di repressione sociale o sessuale: esso infatti, incidendo sulla generazione, incide sul presupposto stesso di ogni vincolo sociale e di ogni regolamentazione sociale della sessualità. Questo ultimo punto è quello fondamentale: da esso emerge con chiarezza come la contraddizione tra la funzione generativa del sesso femminile e l’interruzione volontaria della gravidanza sia sempre stata evidentemente ritenuta non sanabile (da parte e) nell’inconscio collettivo.

4. Avanzo un’ipotesi. Non si parla esplicitamente di aborto, nel testo dell’Onu, perché è difficilissimo rimuovere il disagio, o per meglio dire, il turbamento che questo tema continua ad attivare nelle coscienze, anche in quelle che ritengono di essere riuscite a superare ideologicamente ogni remora al riguardo. È un fatto che la contraddizione tra la funzione generativa del sesso femminile e l’interruzione volontaria della gravidanza non è di principio sanabile: lo dimostrano le innumerevoli elaborazioni ideologiche dell’aborto stesso, che hanno rispettato le dinamiche proprie di tutte le ideologie, in quanto forme di pensiero finalizzate a nascondere le contraddizioni. L’aborto legalizzato è stato giustificato in chiave medica (come aborto terapeutico), in chiave sociologica (come unica modalità per contrastarne l’intollerabile e altrimenti insuperabile clandestinità), in chiave ontologica (negando carattere propriamente personale e addirittura umano alla vita prenatale), in chiave economica (a seguito di situazioni di invincibile indigenza familiare), in chiave giuridica (qualificando la scelta abortiva come scelta di privacy socialmente insindacabile), in chiave contraccettiva (come tollerabile variante di altre più complesse o più costose forme di contraccezione), in chiave politica (come diritto umano fondamentale delle donne e simbolo della loro sofferta liberazione nei confronti del potere maschile) e last but not least in chiave demografica. Non sarebbe compiuta questa rassegna, però, se si tacesse di alcune opinioni sorte nell’ambito del pensiero femminile più radicale, quello che rifiuta di fornire alcuna giustificazione dell’aborto, perché lo qualifica nel contesto dell’esperienza femminile alla stregua di un momento di libertà e di pienezza, una forma di compiuta auto-affermazione della donna, per la quale non sarebbe inadeguata l’espressione, molto amata da un vituperato filosofo tedesco, di affermazione di sé, di Selbstbehauptung. 


 

5. Il fatto che nemmeno un simile lavoro ideologico, che ha ormai alcuni decenni alle spalle, sia  riuscito a far uscire l’aborto dalla zona d’ombra che lo caratterizza e a fargli acquisire visibilità simbolica – sono un segno evidente del fatto che la questione aborto non ha trovato nella legalizzazione la sua risoluzione: contrariamente a quanto imprudentemente affermato da molti, la legalizzazione dell’aborto non è riuscita ad imporsi nella coscienza collettiva come una decisione altamente morale − come imprudentemente affermava Italo Calvino negli anni Settanta, ma continua ad apparire alla stregua di una ferita destinata a restare piaga aperta. Merita di riportare le parole dello scrittore: “Solo chi – uomo e donna – è convinto al cento per cento d’avere la possibilità morale e materiale non solo d’allevare un figlio ma d’accoglierlo come una presenza benvenuta e amata, ha il diritto di procreare; se no, deve per prima cosa far tutto il possibile per non concepire e se concepisce (dato che il margine d’imprevedibilità continua a essere alto) abortire non è soltanto una triste necessità, ma una decisione altamente morale da prendere in piena libertà di coscienza” (da una lettera che Calvino scrisse a Claudio Magris tra il 3 e l’8 febbraio 1975, pubblicata postuma su “Liberazione” del 21 febbraio 2008). 

Il vero effetto antropologico della legalizzazione dell’aborto è stato quello di imporre al sesso femminile la riformulazione del senso che possiede la sua specifica generatività biologica. L’uomo (non diversamente dalla donna) può scegliere la sterilità volontaria, ma non può stroncare la vita prenatale, se non attraverso un atto di violenza su di un altro corpo (sul corpo femminile). La donna, con l’aborto volontario, può stroncare la vita prenatale operando sul suo stesso corpo. Legalizzando la maternità come scelta insindacabile (dato che la gravidanza può essere, per volontà della donna, liberamente interrotta) la postmodernità induce la donna a pensare la generatività non più come possibilità, bensì come potere. Quest’assunzione, che potrebbe in astratto essere pensata come una conquista del sesso femminile, possiede invece ambiguità e ambivalenze profonde, che conduce direttamente alla perdita simbolica del ruolo generativo della donna stessa. 

6. In modo estremamente sintetico: dichiarazioni come quella di Ginevra, che pur muovono dalle buone intenzioni di salvaguardare la salute delle donne, producono alla fin fine come effetto l’erosione interna della stessa identità femminile. Assumere questa consapevolezza è forse il compito meno avvertito, ma indubbiamente più urgente, del nostro tempo.