Ricordate Mowgli? Ci voleva il buonismo dei colonialisti inglesi per farne un piccolo lord della giungla, il paternalismo di chi crede all’innata natura buona dell’uomo perché il suo essere selvaggio si riducesse ad andare in giro nudo e spostarsi di liana in liana. Kipling riproponeva rileggendolo un mito antico: Zeus e la capra, Romolo e Remo e la lupa eccetera… Ma il mito non è realtà. Pendete un bimbo, fatelo crescere in mezzo alle belve, fategli succhiare il latte dalle fiere, abituatelo alla paura, alla fame, alla violenza. Vedete un po’ se crescerà buono, o sarà più forte in lui l’istinto di sopravvivenza che spinge perfino ad uccidere. E’ quel che è capitato a Joseph, 12 anni, Stato di New York. Bello, biondo, razza ariana. Così gli ha insegnato fin da piccolo suo papà, Jeff Hall, uno di quei fanatici neonazi che chissà perché, nel paese più democratico e accogliente del mondo, saltano fuori come una bizzarria della specie, un’eccezione alla tolleranza, una sfida alla convivenza civile.
Jeff era un padre severo. Picchiava, perché le botte fortificano; esigeva, perché da un ragazzo si esige; predicava, la fede e l’obbedienza, non a un Dio o agli uomini, ma a un’ideologia morta e sepolta dalla storia, 70 anni fa. Portava il figlio ai raduni, ai pattugliamenti armati al confine col Messico per colpire quegli straccioni inferiori degli immigrati, alle ronde per garantire la sicurezza, e i soldatini schierati in campo non erano cow boy o ussari dello zar, ma divise delle Sa, delle SS, e alle pareti della sua cameretta non aveva i poster dei personaggi più amati dei fumetti, ma i gagliardetti e i proclami di Hitler. Aggiungi che il piccolo Joseph non viveva con la mamma, ma con una seconda compagna del padre, che condivideva il suo credo, che aveva un sacco di fratelli, e insomma, non proprio una vita facile. Il primo maggio di quest’anno, stanco di essere picchiato e insultato, prende dal cassetto della camera da letto del padre , là dove dovrebbero esserci le gocce per dormire e un buon libro, la 357 Magnum e spara, alla testa del seguace del Fuhrer accomodato sul divano.
Lo uccide. Joseph è rinchiuso da quel dì, ed oggi è sotto processo. Devono decidere se è un assassino, se l’omicidio era premeditato, se ha delle attenuanti. Il procuratore della contea in cui vive, in California, non ha dubbi: voleva bene al papà, che era duro, ma a sua volta lo amava. Dunque, se ha sparato è per predisposizione al crimine, è pericoloso, può tornare a delinquere.
Galera, e ne avrà per almeno una dozzina d’anni, anche se in California i minori di 14 anni non potrebbero essere reclusi. Ma il caso lo impone. Non dubitiamo che il povero Joseph possa essere pericoloso, per se stesso o per gli altri. Ma il carcere? Opteremmo senza esitazioni per una famiglia adottiva, per allontanarlo il più possibile dall’ambiente dove è cresciuto, e per un paziente lavoro che ricostruisca la sua personalità ferita, umiliata, invasata. Ci si riesce coi bambini-soldato del cuore dell’Africa, lordi di violenze e ossessioni, perché Joseph no? Il procuratore ha ragione, quando insiste sulla libera capacità e possibilità dell’uomo di fare il male. E’ possibile, che Joseph , come tutti noi, sia capace di odio. Che sia più malvagio ancora di suo padre. Eppure, può salvarsi, essere salvato. Non è stabilito dagli uomini, esecutori del volere divino, il suo destino.
Il paese più democratico del mondo permette che siano i giudici a decidere che la legge sia spietata, perché il peso della colpa è una macchia indelebile, segno dell’abbandono dall’alto. Noi siamo pasticcioni, la nostra giustizia una tragedia, ma abbiamo il senso del perdono. Questo manca al Procuratore della contea californiana. Che certamente dopo ogni udienza in cui chiede condanna tornerà a casa, la sera, guardando i suoi figli, lieto che Iddio li abbia benedetti e che quindi siano così buoni e giusti. Non c’è posto per l’errore, il peccato, nel suo mondo regolato e perfetto. Non c’è posto per la misericordia.