Tutto sembra voler congiurare per gettare l’ennesima ombra di discredito sull’Ilva di Taranto. Nel giorno in cui il Senato ha convertito in legge il decreto per la bonifica e il risanamento ambientale della Città e del porto, un operaio dello stabilimento è rimasto, nel primo pomeriggio, ustionato. Niente di grave, per fortuna. Giuseppe Raho, 34 anni, ha subito alcune ustioni, lievi , puntiformi e di primo grado, al basso ventre e ai glutei. Si trovava nel reparto gestione rottami ferrosi, uno di quelli posti sotto sequestro dal gip di Taranto il 26 luglio, quando sono esplose alcune scorie metalliche incandescenti, fuoriuscite da un contenitore detto “paiola”. Medicato nell’infermeria dell’Ilva, le sue condizioni sarebbero ora buone. Il fatto è che quell’incidente non avrebbe dovuto provocarsi. Donato Stefanelli, segretario generale della Fiom di Taranto, ci spiega perché.



Si è trattato di semplice sfortuna?

Direi di no. L’incidente è accaduto in un’area dove si sono verificati, in passato, episodi analoghi che la Fiom ha denunciato puntualmente. In quell’area, del resto, occorrerebbe un livello di sicurezza che, attualmente, non c’è. Se esiste la possibilità che delle schegge vengano proiettate nell’ambiente circostante, ci sarebbe bisogno di protezioni che, attualmente, non ci sono.



Quindi, l’llva ha pure problemi di sicurezza?

Oggi lo stabilimento è famoso per l’inquinamento ambientale. Ma, fino a 6-7 anni fa, in fabbrica si moriva. Gli infortuni non erano solamente di lieve entità come questo o invalidanti, ma pure mortali. Dopo che si certificarono una serie di morti e vi furono lotte sindacali, l’azienda fece degli investimenti in sicurezza che, effettivamente, hanno fatto sì che morti sul lavoro non ce ne fossero più.

L’incidente di oggi, quindi?

Poteva essere evitato se l’opera di messa in sicurezza fosse stata continua e portata a compimento. Diciamo che, anche sotto questo punto di vista, resta molto da fare. Ovviamente, dovrebbe essere compito dell’azienda compiere gli opportuni investimenti per far fronte al problema.



Come, del resto, ogni centesimo necessario per adempiere alle imposizioni della magistratura e far ripartire la produzione dovrà metterceli l’Ilva. Da questo punto di vista, come le sembra che si stia procedendo?

La situazione, oggettivamente, richiederebbe un impegno dell’Ilva all’altezza della gravità di cui, tuttavia, non ne abbiamo avuto riscontro. Anzi. Da quando parte dello stabilimento è stata posta sotto sequestro, assistiamo, da parte dall’azienda, alla messa in campo una strategia prevalentemente giudiziale, volta a spostare in avanti nel tempo l’assunzione delle proprie responsabilità. Nonostante sia debitrice nei confronti di tutti, sia della città che dei lavoratori.

Come giudica lo stanziamento di 400 milioni di euro da parte dell’azienda?

Del tutto insufficienti. Anche se, quantomeno, si tratta di un significativo passo in avanti.

E la legge approvata in Senato per il risanamento ambientale e la riqualificazione del territorio di Taranto?

Finalmente c’è l’attenzione che in passato non c’è stata, derivata, a onor del vero, dall’ordinanza di sequestro preventiva ordinata circa due mesi fa dal gip e, contestualmente, dal pressing delle istituzioni e del sindacato sul governo. Tuttavia, quanto fatto sinora, lo riteniamo solamente un primo passo, ma anch’esso insufficiente.

Di cosa ci sarebbe bisogno?

Di opere infrastrutturali massicce supportate da ben altri investimenti. 

Contestualmente, ieri, si è avviato il processo che vede imputati i vertici dell’Ilva per la morte di 15 operai per amianto. Almeno questa vicenda giungerà a compimento?

Diciamo che diamo atto alla magistratura di Taranto di aver riconosciuto, in questi anni, le ragioni di chi ha avuto lavoratori ammalati o morti per le conseguenze del loro lavoro in fabbrica. Siamo soddisfatti, in particolare, del fatto che il processo è stato costruito sull’azione legale che l’ufficio della Fiom aveva avviato da tempo.  

 

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