Confessate. Quale genitore non ha almeno una volta guardato suo figlio cercando di intravedere i segni di un’eccezionalità, anche se per pudore non si è mai ventilata la parola genio. Si comincia dalla culla: apre già gli occhi, già sorride, dice già mamma, che sguardo vivace; e all’asilo è il più sveglio, quello che impara meglio le canzoncine e ricorda i nomi di tutti gli amichetti. Le cose cominciano; si prosegue così alle elementari, dove i 9 e i 10 siglano la strada di un ragazzino speciale, e non importa se è così per tutti. Per il tuo è diverso, lui è bravo davvero. Le cose si mettono male alle medie, ma se tentenna in qualche materia è l’ambiente caotico, i professori che non lo capiscono, è troppo sensibile. Poi bisogna dargli tempo, non si matura tutti insieme… E al quarto anno di liceo, quando non ce la fai più a pagare ripetizioni e saltare le vacanze per rimediare ai suoi debiti, allora ti rassegni, sì, è intelligente ma non si applica, l’importante è che sia felice (ma lo dici perplesso, dubitando in cuor tuo che mai sia possibile, in un mondo dove già è dura se primeggi, figurarsi se sei nel mucchio o in ultima fila). Non siamo ipocriti: piacerebbe a tutti sentirsi dire: gentilissimi, vostro figlio è superiore alla media, gradirebbe sottoporlo a una misurazione del quoziente di intelligenza? Di più: guardi, l’abbiamo fatto, livello incredibile, iscritto d’ufficio al Mensa. Che sta per tavola, in latino, cui sono invitati pochi, per un banchetto riservato. Come la Tavola Rotonda del ciclo arturiano, solo che lì non bastava essere intelligenti, toccava pure essere buoni e puri. I vantaggi di questo titolo d’onore? Non più scudiero e la stima del sovrano, ma Porte spalancate nelle più prestigiose università europee, aziende che si contendono il giovane, luminose carriere, Nobel.
Piacerebbe, anche perché queste storie capitano davvero. Prendete Olivia Manning, una ragazzetta di Liverpool. Posto triste, crisi da paura, resta la squadra di calcio. Ma lei non ci gioca. Lei è la più brava a scuola, e si sgobba tutti i pomeriggi i compiti di mezza classe, mentre i pelandroni stanno alla play o fanno il filo alle sue amiche. Olivia ha solo dodici anni, anche se la fotina che ci regalano le cronache immortala un faccino più grande, nonostante il penoso fiocco a quadretti che le incornicia i capelli. Ma si sa, guardate i copricapi della regina, gli inglesi non sono mai così glamour. Fa una scuola parallela, si esercita con insegnanti appositi che lavorano solo per inventarle nuovi esercizi e aumentare le sue conoscenze. Impara troppo in fretta, praticamente legge una volta e sa. Naturale che il test sul Q.I. l’abbia brillantemente superato, attestandosi su un valore di 162 punti che, tanto per dire, è superiore di 2 a quello di Albert Einstein. Sta dunque ai primi posti, tra i 100 mila al mondo che hanno passato i test. Ed è cavaliera del Mensa Club. Poco importa se un aborigeno neozelandese applica la sua genialità nel solcare le onde col wind surf o ingegnandosi per nuove tecniche di pesca. Se un coetaneo dei bassi napoletani la esercita a tirar su il pranzo con la cena, con sfacciata baldanza; se quella bimbetta dell’Ohio potrebbe essere assunta alla Nato come antihacker, tanto è brava al computer. Loro non hanno fatto i test del Mensa, non fanno parte degli eletti. Me li immagino, gli adepti della setta degli esseri superiori, che si ritrovano a recitare versi, discettare di formule, filosofare, pianificare – speriamo di no – le sorti dell’umanità.
Che ci fa con loro la piccola Olivia? Si annoia? Invidia gli amici che possono marinare la scuola e giocare a freccette sui prof? Pensa languida al compagno del primo banco che la considera troppo in alto, per farci su un pensierino? Chissà se possiamo parlare anche per lei, di “diversa abilità”. Dove l’accento va sempre sul “diverso”, per quanta attenzione mettiamo al politically correct. Può darsi che la piccola Olivia si stufi, dei fiocchi in testa e dei programmi speciali, e decida prima o poi di tatuarsi le braccia e forarsi il naso e darsi al metal; che si sforzi di sembrare più scema, per confondersi e sparire tra i tanti. Spero che i sui genitori, troppo solerti nell’accudire la sua eccezionaltà, non la condizionino. Che auspichino per lei un futuro grandioso, ma innanzitutto in felicità. Chi è intelligente può esserlo più di altri, se usa la sua ragione per comprendere il significato delle cose, per essere grato dei doni preziosi che ha ricevuto, per aiutare qualcuno. Può essere tremendamente infelice, se il suo genio lo isola o gli fa credere di essere migliore, indiscusso artefice della propria sorte. E’ in gioco la libertà: anche il genio può usarla male, e seppellire il suo talento in un prato.