“Se non sei stato concepito sano, per il tuo bene è meglio morire”, ha disposto la Corte di Cassazione. E stavolta il fantomatico diritto a nascere solamente sani viene attribuito alla madre, piuttosto che al padre, la quale per il “bene del proprio bambino” decide di abortire o, meglio, di non mettere al mondo una persona che – secondo la Suprema corte – sarebbe costretta a una vita infelice e carica di sofferenze. Tanto che, non essendo riusciti ad eliminarla per tempo, la vita di un down va risarcita. Un’affermazione difficile da spiegare, ma ancor più da capire, specie per chi vive una disabilità e magari dai risvolti anche più pesanti. Ma del resto la Cassazione ne sa certamente molto più di tutti i down e delle loro famiglie. Andiamo con ordine, o cerchiamo di farlo, visto che la Suprema Corte riesce, nelle settantasei pagine della sua sentenza, a confondere anche chi è addestrato a leggere lunghissime motivazioni a corredo, spesso, di sentenze che anelano i principi del nostro ordinamento, ma che subito dopo li sacrificano per amore di paventati diritti ancora in cerca di qualche legittimità. E in questa sentenza prende forma con tracotanza l’idea di una eugenetica scontata, costruita sull’interpretazione distorta della legge 194/78, che, lontana dal promuovere la selezione di feti affetti da patologie, considera legittimo motivo di aborto l’esposizione della gestante “a grave pericolo di vita o grave pericolo per la sua salute fisica o psichica”. Invece proprio l’eugenetica, vietata dal nostro ordinamento giuridico e formalmente rifiutata dalla Corte, viene di fatto ad essere sostenuta attraverso una serie di argomentazioni che determinano gravissime ripercussioni anche giuridiche e processuali. La mistificazione lessicale realizzata dalla Corte Suprema sfiora addirittura lo sberleffo quando, pur dichiarando di abiurare il concetto di diritto a nascere sano, si sostiene che è il diritto alla salute da tutelare. Così non si esita a declassare il feto da “soggetto di diritto” a “oggetto speciale di tutela”, spacciandolo quale concetto più pregnante e pragmatico, sposando una certa “più avveduta dottrina” e liberandolo, “finalmente”, dai “pantani della soggettività”. Secondo la Cassazione, il diritto a non vivere una vita malformata e dunque a nascere sano sottintende quello alla vita, che altro non può essere se non sana, diritto da trasformarsi dopo la nascita in quello alla salute. Tale giurisprudenza, che si fa legge, considera certo l’interesse del nascituro a non vivere una “non-vita”. Quindi dichiara con disinvoltura come il danno da risarcire al “mal capitato nato” (down), non sia la malformazione di per sé, ma lo “stato funzionale d’infermità”, “la condizione evolutiva della vita handicappata intesa come proiezione dinamica dell’esistenza”. Passaggi, sebbene logorroici e necessariamente contorti, che lasciano il lettore – giurista o meno – basito. “Vivere una vita malformata è di per sé condizione esistenziale di potenziale sofferenza”, avvertono i giudici. Ed anche volendo lasciarsi disorientare dall’ aggettivo “potenziale”, la violenza della loro affermazione è inaudita, soprattutto se accompagnata da un’altra ancora più grave quando, richiamando pronunciamenti relativi al fine vita e negando l’esistenza di un obbligo di vivere, considerano essenza dei diritti umani, prima della dignità, la libertà individuale, “che si autolimita nel contratto sociale, ma resta intatta nei confronti di se stesso, in una dimensione dell’essere che legittima alfine anche il non fare o il rifiutare”. Se allora questo rifiuto della vita da parte della madre non viene praticato per tempo, scatta – secondo la Corte – il diritto al risarcimento per il “nato con malformazioni congenite”. Che non riguarda la diversità in senso discriminatorio, ma va inteso quale strumento di tutela, rispetto e alleviamento della vita handicappata che il minore sarà costretto a vivere, sempre fin quando non deciderà di rifiutare tale… “non-vita”. E chi pagherà questo risarcimento? La madre? Il padre? Qualche familiare? Nient’affatto. Anzi, tutt’insieme loro si vedranno ripagati dai sanitari, che con le loro compagnie assicuratrici (sovvenzionate da strutture generalmente pubbliche, quindi dai contribuenti) sono i veri capri espiatori. La responsabilità, non solo giuridica, incombe dunque sul sanitario direttamente nei confronti del minore.



E non per mancata informazione diagnostica (questa, discendendo dal consenso informato, attenderebbe giustamente alla madre), ma per “omissione colpevole” cui segue “l’esistenza diversamente abile” del minore, “che discende a sua volta dalla possibilità legale dell’aborto riconosciuta alla madre in una relazione con il feto … di includente-incluso”. Chiaro,no? Insomma sembra quasi che il responsabile delle deformazioni sia il medico, nonostante la Corte dichiari formalmente il contrario. Sostengono, i giudici, che si tratti di responsabilità da contatto sociale del sanitario direttamente nei confronti del concepito, ma allora chi potrà agire nei confronti del sanitario in caso di richiesta di aborto di soggetti (oggetti di tutela) sani? E ancora: il sanitario (che inevitabilmente si trincererà sempre più in una malsana medicina difensiva), oltre al risarcimento di madre, padre e figlio, dovrà rifondere anche i fratellini del malcapitato nato “non-vivente”. Perché stando ai giudici il risarcimento è provocato anche dalla “diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale costantemente caratterizzato da serenità e distensione”, con la costrizione a vivere “in una dimensione familiare alterata”. Fra l’altro, oltre a chiedersi il motivo per cui nonni e zii (solitamente baby sitter per eccellenza) vengano lasciati fuori, non si capisce come possano certe famiglie numerose continuare a vivere, data la diminuita possibilità di godere di genitori sereni e soprattutto distesi. I principi giuridici fondamentali vengono poi ulteriormente oltraggiati con il riferimento all’inserimento del “malformato” in un ambiente familiare che, nella migliore delle ipotesi, è impreparato ad accoglierlo. Nessuno è mai preparato alla disabilità, soprattutto improvvisa, ma le valutazioni sterili, fatte proprio da chi una disabilità non l’ha mai vissuta e forse neanche incontrata, sono pericolose: quasi istigatorie. Non fosse perché la valutazione del valore della vita, che antepone una presunta libertà alla dignità, supera l’ essenza della vita stessa, scivola in sillogismi e sovrapposizioni strutturate con l’unico fine di un puro nichilismo dell’uomo in quanto tale. Ad oggi il nostro ordinamento giuridico tutela ad oltranza gli incapaci e quindi anche i disabili, proteggendoli come si dovrebbe proteggere un neonato. Cioè l’esatto contrario di quanto disposto dalla Cassazione.

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