Nel 2011 si registra una chiara inversione di tendenza di quella che era stata chiamata la “mini-ripresa della natalità” avvenuta in Italia tra il 2000 e il 2008. Come evidenziano i dati Istat diffusi ieri, la diminuzione c’è stata sia in assoluto sia come rapporto tra numero di nati e popolazione femminile. E’ un dato ancora più preoccupante perché le sue cause sono sia congiunturali sia strutturali. La prima e più evidente ragione strutturale di questo declino demografico che è ricominciato nel Paese è la grave crisi economica.



A essersi abbassato è il reddito delle famiglie, ma soprattutto quello delle famiglie giovani e delle coppie che intendono avere figli. Quello tra disoccupazione giovanile e diminuzione della natalità è un legame molto robusto, soprattutto nel caso italiano, e comporta una catena di conseguenze che è sotto gli occhi di tutti. Aumentano i tempi nei quali una giovane coppia può trovare una situazione di lavoro stabile e di reddito dignitoso, e di conseguenza cresce l’età in cui arriva il primo figlio, per l’uomo e per la donna. Questo aumento dell’età finisce per essere così elevato che inevitabilmente diminuisce la probabilità del secondo o del terzo figlio.



L’impatto della crisi è davvero significativo e non è bilanciato da politiche di integrazione del reddito familiare e dei servizi alla famiglia, come accade in tutti gli altri Paesi. E’ un peccato di omissione molto grave che da anni sta danneggiando il nostro Paese, sia per il declino della natalità sia per la minor vitalità nelle prospettive di ripresa economica. Il secondo dato che emerge con chiarezza da questi numeri è che l’immigrazione è stata interpretata in modo inadeguato in quanto fenomeno sociale.

E’ stata vista cioè soprattutto come un’opportunità di lavoro per occupazione a bassa qualificazione di lavoratori stranieri: si va dalla raccolta nei campi alle badanti. L’effetto è stato quello di portare le famiglie degli immigrati che decidono di integrarsi nel nostro Paese in situazioni di difficoltà non dissimili da quelle delle famiglie italiane. Il numero di nati per donna italiana è passato dall’1,32 nel 2008 all’1,30 nel 2011.



Mentre per le donne straniere si è scesi dal 2,31 nel 2008 al 2,04 nel 2011, cioè a quella che dovrebbe essere la situazione di una popolazione stazionaria e stabile. La verità è che il declino della fertilità delle donne straniere è anch’esso legato a una crisi economica senza risposte che mette in difficoltà le famiglie immigrate di prima generazione come e in alcuni casi ancora di più delle famiglie italiane. Se noi mettiamo in relazione la crisi della natalità con il declino economico del Paese, ci rendiamo conto di un fatto che dovrebbe essere al centro delle politiche economiche, e cioè che il mondo delle famiglie italiane e a questo punto anche straniere è sempre meno giovane e sempre più in età maturo-avanzata.

 

Richiede dunque cure aggiuntive, ma esprime anche una domanda di mercato che è qualitativamente e quantitativamente diversa. Qualitativamente perché è diversa la composizione di età, quantitativamente perché il reddito disponibile è diminuito. Questi numeri sono dunque da considerare con attenzione, perché segnalano un mercato interno che è stretto nelle manovre di austerità in atto ormai da due o tre anni. Al tempo stesso, queste politiche non offrono opportunità interessanti dal punto di vista imprenditoriale. Il mercato italiano cioè è caratterizzato dal fatto che la domanda ristagna e non cresce, vuoi perché la capacità d’acquisto è bassa, ma vuoi anche perché i potenziali consumatori, siano essi giovani o meno giovani, sono sempre meno.

 

La struttura demografica è fortemente sbilanciata, e ciò costituisce l’origine autentica di tanti problemi del Paese. In primo luogo per quanto riguarda la questione delle pensioni, perché è vero che c’è una quota maggiore da pagare rispetto ad altre realtà, ma in larga parte è la conseguenza del fatto che ci sono più persone in età avanzata rispetto a Paesi relativamente giovani come l’Irlanda. Dovremmo essere così intelligenti e appassionati al vero bene del Paese e dei nostri figli, da mettere in opera delle misure oggi nella consapevolezza che produrranno i loro effetti tra cinque, dieci o 15 anni.

 

E’ ciò che si richiede a una classe dirigente che realmente abbia a cuore gli interessi del Paese. I dati Istat insomma sono coerenti con il disegno che ho prospettato finora. Dovrebbero inoltre rappresentare un campanello d’allarme in quanto segnalano un fenomeno demografico che è espressione diretta delle difficoltà economiche del Paese.