Caro direttore,
mi ha molto colpito l’articolo di Umberto Veronesi su La Stampa di ieri, dal titolo “Perché sostengo che l’ergastolo va abolito”, suscitando in me alcune perplessità.
Lavoro col “fine pena mai” dal 1996, come giudice di Sorveglianza con giurisdizione in particolar modo sul detenuto sottoposto al regime di cui all’art. 41 bis O.P. e non posso condividere il giudizio complessivo di sfiducia sulla pena dell’ergastolo, come strumento che fallisce sostanzialmente gli obiettivi primari della rieducazione e del reinserimento previsti dalla Costituzione e che, “darwinianamente”, si porrebbe in contrasto con una sorta di evoluzione naturale in positivo della specie umana, destinata, in futuro a non sbagliare più.
Tale posizione è dettata, ritengo, da una scarsa conoscenza dell’esatta valenza dell’articolo 27 della Costituzione. L’espressione “la pena tende alla rieducazione…”, implica il riconoscimento del condannato come “uomo” che – anche in condizione di segregazione – può giocarsi nella libera scelta di continuare a delinquere o cambiare rotta, desiderando “davvero” un mutamento per sé e affidandosi al percorso rieducativo proposto in carcere. E che tutto si decida a questo livello trova riprova nel fatto che anche coloro che per complessi meccanismi processuali espiano una condanna in forma alternativa – senza avere mai fatto un giorno di carcere e godendo di ampia autonomia – non sono esenti da recidiva; possono cioè ricadere nella commissione di reati, proprio per non avere maturato una genuina volontà di cambiamento.
Né possiamo affidare questo desiderio di cambiamento a una ottimistica evoluzione della specie umana, destinata a non commettere più errori e pertanto a vanificare qualsiasi forma diretta a correggere le conseguenze del suo agito.
Non ritengo poi accettabile un giudizio di sfiducia sulla stessa funzione dell’ergastolo, suggerito dalla evoluzione naturale della specie, in quanto si tratta di un giudizio basato su una dinamica che mira a non riconoscere l’uomo “uomo”: oggi visto come solo capace di male, un domani (grazie al miglioramento della specie) solo capace di bene indipendentemente da una sua libera scelta.
Ma l’uomo è tale perché può scegliere o il bene o il male. Andatelo a dire ai miei 41 bis che in realtà il loro errore dipende da circostanze di luogo, tempo, sociali: “Dottoressa, diciamocelo chiaramente, io sono un mafioso e di male ne ho fatto tanto… ‘a chi se lo meritava’, sto pagando il giusto, ma l’ingiustizia più grave è la mia donna che mi ha lasciato. Se solo potessi riavere lei e i miei figli…”.
Sono consapevoli del loro male e della pena loro inflitta, ma qualcuno di loro sa anche che è quello il punto per rialzare lo sguardo e desiderare qualcosa di meglio per sé.
Quando un uomo commette un crimine (e qui sto parlando di reati il cui disvalore è pacifico e spesso molto grave perché minano le condizioni stesse della vita sociale) è perché non ha rispettato il suo rapporto corretto con la realtà. E di ciò è anzitutto consapevole lui stesso. La funzione rieducativa della pena riaffermata dalla Costituzione, lungi dal muoversi in un’ottica esclusiva di pacificazione sociale – destinata, come tale, a “scadere” a mere apparenze − propone e richiede un lavoro per recuperare innanzitutto il rispetto per se stessi. È un lavoro articolabile in due momenti: riconoscere che si è sbagliato e, conseguentemente, disporsi ad una espiazione che non sia vissuta come un’ingiustizia, ma come tempo nel quale recuperare quanto con il crimine si era rotto o incrinato, accettando qualsiasi circostanza valevole a rendere più stabile il proprio percorso rieducativo.
La distinzione tra il bene ed il male e la possibilità di scegliere l’uno o l’altro è nel cuore di ogni uomo. L’articolo 27 della Costituzione, anche nelle sue forme più contenitive, propone un percorso vero per tutti coloro che hanno deciso di essere uomini sino in fondo.