Ci sono terre dure da domare.
Quasi sempre sono quelle belle.
La valle dei Mòcheni è una di queste, la valle che pende sopra Pergine Valsugana (quella della canzone, ricordate?) che si diparte come un dito dritta a Nord. E suoi abitanti sono degni di questo Nord che li abita e che li conforma. Sono “mòcheni” e parlano una lingua ibrida, il loro nome viene dal tedesco “machen” che significa: fare.
Chiamati dal Principe Vescovo a lavorare nelle miniere di rame, presto esaurite, e rimasti sposati alle donne trentine; non abbastanza buoni a fare i contadini, sono rimasti cacciatori, hanno girato migrando e vendendo povere cose, sono andati in ’Merica e in Svizzera, sono tornati con gli occhi pieni e le tasche semivuote in case ancora povere. In prati pieni di fieno e di vacche, ai loro monti dai fianchi bianchi ricchi di bestie selvatiche, gli inverni tali da irrigidire la terra del camposanto al punto da appendere i morti ai tetti, in attesa della primavera disponibile.
Le loro donne, quelle che tenevano le stalle, si portavano il fieno sulla schiena nelle gerle grandi tre volte loro, cariche come lumache, ma dalle ginocchia svelte sui pendii scavezzacolli: loro svezzavano presto i neonati col latte di vacca, così li lasciavano alle nonne e tornavano prima al lavoro. Le loro vecchie: col grembiule nero, quando scendono in città odorano di fieno, il dolceacidulo sentore delle bestie addosso.
I loro figli, quelli di adesso: quelli dei nonni che hanno tenuto durissimo, che non hanno venduto, i padri che hanno ricostruito, aperto strade, ricevuto contributi provinciali e innestato il ramo della loro tradizione nella cultura trentina. Quasi eroi, direi, i sopravvissuti alla fame e all’ignoranza, gente che può tirare un sospiro di sollievo quando nevica, no, non rimarrà isolata per mesi, no, non rischierà l’ultimo nato o il nonno di finire sul tetto.
E adesso arriva il bello: una giovane e nuova coordinatrice pedagogica della scuola dell’infanzia (l’asilo per interderci) dichiara di non ammettere che i dieci bambini del comune di Fierozzo (notate prego la fierezza del nome di questo paese di trecento anime) facciano il Segno di Croce prima di mangiare. Segnale dei tempi, intercultura, dice lei.
Insorge la valle, in testa i genitori, il sindaco, il parroco: ma che bella questa unità!
Articoli sui giornali, il fatto arriva sulle testate nazionali, il presidente della Provincia mette pace definitiva: provvedimento sospeso, “pensavo fosse uno scherzo di carnevale anticipato”.
Le motivazioni fanno appello alla tradizione, la minoranza etnica mochena è cristiana, cristianissima, non si può togliere loro un gesto così significativo: ma lo sapete voi quanto c’è da ringraziare per il pane, noi qui che siamo morti di fame solo sessant’anni fa? E ce lo ricordiamo…
E poi, per favore, ci fosse un musulmano, chi potremmo mai offendere, sono dieci figli nostri, le dita della mano del paese, quelle speranze preziose che terranno la valle in vita, la lingua in vita, la tradizione, appunto…
No, non basta questo.
Voi, così coraggiosi, non aggrappatevi alla tradizione, non difendetevi dietro lo scudo dei padri, che è forte sì ma mai abbastanza di fronte a certo laicismo relativista, che ritornerà alla carica, magari in nome del primo figlio di Maometto che abiterà libero la vostra bella valle.
Libero, davvero libero.
Sottolineo libero.
Perchè questa è questione di libertà, più che di tradizione.
Di Presenza, più che di minoranza. Di appartenenza.
I vostri padri vi hanno consegnato a Cristo. I vostri padri sono venuti in obbedienza a un Vescovo, hanno “fatto” la valle abitabile e la loro vita vivibile attraverso l’appartenenza alla fede cristiana, in nome di Dio. Le vostre madri vi hanno fatto battezzare nella chiesa del paese, ogni gruppo di case ha la sua chiesetta accovacciata, con i muri appoggiati intorno, come fosse una chioccia coi pulcini, come una pastora con le pecore. I vostri morti, i vostri santi, sono addormentati sotto lapidi sbilenche anch’esse sorrette dai fianchi della chiesa, i cimiteri sacrificati come orti.
Guardando a mezza valle dalla strada che la fende si possono contare i campanili, cinque, sei, sette, e ancora, come fossero le braccia alzate dei paesi: eccomi, sono qui, rispondo al tuo appello Signore, Signore non abbandonarmi, Signore proteggimi, amami.
Signore la mia terra ti appartiene.
La mia terra, la terra del mio cuore: Signore se io sono qui è perché Tu sei con me.
Se ho dei figli, ecco sono Tuoi, appartengono al tuo Amorevole sguardo, il pane quotidiano è frutto del mio lavoro ottenuto con le mani che Tu mi hai dato.
Questo è il pane della terra, insegnerò loro a ricevere anche il Tuo Pane, Signore mio Dio.
Signore mia Salvezza.
Per questo e solo per questo oserei dire dovete insegnare ai bambini a segnarsi.
Fare il Segno di Croce è dire: sono Tuo. Chi mai potrebbe impedirci di farlo? Di affermarlo? Chi potrebbe toglierci questo gesto che è l’affermazione di ciò che un uomo vuole essere?
Togliercelo significherebbe impedirci di dire chi siamo, eliminare la nostra identità, la nostra essenza, dunque toglierci la libertà più importante e semplice: quella di esistere.
Ci fossero in classe nove bimbi di religioni diverse, a mio figlio vorrei fosse insegnato a fare il Segno di Croce, l’unico cristiano, ugualmente libero di esserlo e professarlo.
Chi è di Dio e sa di esserlo, chi è di Cristo e vuole esserlo, deve avere la libertà di farlo.
E la gioia di dirlo agli altri, di mostrarlo.
Con la forza e la cura con cui sostenete l’appartenenza a una minoranza etnica e fate valere i vostri diritti, così come insegnate il ladino ai bambini, altrettanto fortemente e appassionatamente difendete il vostro cristianesimo.
Ma il vostro cristianesimo non si riconduca alla vostra tradizione: alcune tradizioni non sono poi così difendibili, né perpetuabili o mantenibili; possono solo essere dei bei ricordi.
Cristo non può correre questo rischio: Lui ha chiesto ai vostri padri il loro “sì” e lo stesso fa con noi adesso. Credere in Cristo non può essere solo una scelta “tradizionale”, cioè tramandata dagli antenati.
Lui ci pretende di persona, Lui ci chiama uno a uno, Lui ci vuole qui e ora.
È per questo che Ci serve.
Ci serve qui e ora, domani e per sempre. A me, a mio figlio.
A noi serve la Sua Compagnia presente, il Suo pane quotidiano e la vita eterna.
È attraverso Lui che rivedrò mio padre: si chiama Resurrezione della Carne.