Le mamme minorenni in Italia sono un fenomeno da considerare con attenzione. Secondo uno studio dell’associazione Save the Children, le nascite da mamme sotto i 20 anni sono l’1,7% delle nascite totali: un fenomeno spiegano, circoscritto, ma che coinvolge circa 10.000 nascite ogni anno.
Su questo fenomeno, di cui si sono occupati massmedia e giornali di mezzo mondo perché è un fenomeno senza frontiere, si possono avere tre atteggiamenti: quello che punta il dito contro la mancanza di una diffusa cultura anticoncezionale, quello che si lamenta per l’accesso troppo precoce dei giovani al sesso e quello che considera che almeno l’aborto è stato evitato.
In realtà, inviterei a considerare un quarto punto di vista: guardare la vicenda, che resta certamente preoccupante e degna di attenzione e cura, da un altro punto di vista, domandandosi: come mai ci stupiamo per un fatto che nei secoli – entro certi limiti – è stato normale? Fare un figlio a 18 anni era normale all’inizio del secolo scorso; perché ormai è diventato “normale” fare i figli da over 30 e farli intorno ai venti ci spaventa? E, insomma, perché ci ostiniamo a chiamare “ragazzi” degli individui con barba e baffi e che magari hanno finito l’università pensando magari che debbano solo pensare a comprare i jeans che volevamo comprare noi?
Se prima guardavamo dal punto di osservazione del genitore protettivo, ora insomma proviamo a guardare da quello del figlio, della sua biologia e della sua necessità naturale ed istintiva di sesso ma anche di amore e delle conseguenze che sesso e amore portano: i figli, una necessità che perde il controllo se non è accompagnata ma lasciata alla pura reattività.
Se ben ci pensiamo, è solo negli ultimi anni che l’età della gente al momento del matrimonio (sempre che si sposino) è aumentata esponenzialmente, così come è fatto recente il rimandare l’età per fare un figlio. Prima non era buona cosa avere rapporti sessuali da giovani non sposati, anche perché era normale sposarsi a vent’anni. Giulietta e Romeo si sposavano ben prima dei vent’anni e Shakespeare non ci trovava niente di strano. Normale significa che era la consuetudine, ma significa anche un’altra cosa: che seguiva l’orario dell’orologio biologico, che oggi la cultura odierna ci obbliga ad ignorare.
Ecco allora il punto: il mondo che guarda dal punto di osservazione del genitore paternalista si indigna per le gravidanze giovanili, arrivando addirittura a scandalizzarsi se la ragazza “nemmeno abortisce”; ma non s’indigna nemmeno un poco se le donne sono costrette a rimandare la gravidanza ad epoca indeterminata ed in cui – ti pare poco! – i rischi finiscono per non venire più.
Si illude allora la gente prospettando che si possa rimandare (“gestire”) l’età fertile come si vuole, tanto ci pensa la medicina, salvo poi accorgersi tardivamente dei dati medici: anche la fecondazione in vitro non funziona più oltre una certa età.
Il punto di osservazione del figlio invece ci fa vedere che la persona è fatta per seguire certe strade inscritte nel suo Dna biologico e nel suo Dna morale.
Qualche volta però la spinta del figlio incontra solo silenzio e solitudine, e la persona “spara” la sua capacità affettiva e sessuale a vanvera, ed ecco le complicanze delle gravidanze giovanili, che sono un problema per la mancanza della famiglia e per essere esplose in un secolo che considera come bambini quelli che cento anni fa erano padri amorosi e mamme giovani e attive.
Il punto di osservazione paternalistico guarda il fenomeno mamme-bambine indignandosi perché fanno sesso troppo presto o perché fanno sesso senza il dogma dei contraccettivi. Il punto di osservazione del figlio insegna ad indignarci per un altro motivo: perché viene usurpata alle donne l’età fertile illudendole che a vent’anni e anche dopo il sesso sia sinonimo di gioco e basta, senza addentellati con le altre tre parole: amore, figli, famiglia; e perché ci accorgiamo che questo è solo un brutto trabocchetto per pettirossi creduloni.
Le gravidanze giovanili sono un campanello che suona nelle coscienze della società postmoderna: riappropriarci del corpo non significa più fare sesso come dove e quando ci pare, ma capire che il “dove, come e quando” ha in sé delle regole naturali, che la scienza e il rimpianto delle donne e uomini che hanno aspettato troppo – per assecondare la violenza del mercato del lavoro o del mercato della moda – ci additano con forza.