San Damiamo d’Asti è un paese che si staglia su una maestosa collina a fare da spartiacque tra il Monferrato e il Roero. Ieri mattina in una sala del Comune gremita di gente, sei cuochi hanno provato a interpretare la gloria locale: il cappone (nella foto di Sarah Scaparone). Lo hanno fatto accostandovi acciughe, funghi, tartufi e castagne, come soleva fare quando si avvicinava il Natale il grande Guido di Costigliole. È stata una festa intorno a una prodotto identitario e quando sono uscito sulla piazza, mi ha fatto tenerezza vedere i ragazzini che giocavano a calcio. Hanno messo i loro cappotti per terra per fare le porte e poi si sono sfidati tirando qualche calcio al pallone. Ma lo sapranno – mi sono chiesto mentre entravo nel bar Sacco col pavimento in cotto antico – che tutto trama contro il loro futuro e il loro paese? Probabilmente non lo sanno e non lo sapranno ancora per molto, ma forse un giorno, tra una decina d’anni, uno di loro, magari quello che ha parato un tiro diretto, farà il sindaco del paese. Sì, un paese che sarà accorpato con altri Comuni e dove gli abitanti avranno la pelle di diversi colori.
I sindaci dei paesi sono dei volontari, degli eroi di questi tempi, che hanno accettato di caricarsi il peso di tante grane per far vivere la scuola, la casa di riposo, la polisportiva. Tutte cose e servizi che non interessano al “Patto di stabilità”, ma senza le quali il luogo dove questi ragazzi oggi si riconoscono, vivono, si innamorano, sarebbe impoverito.
“Lasciate stare i Comuni”, mi verrebbe da dire al signor Monti. L’effetto “salvatore della patria” sta andando esaurendosi, avendo deciso di usare l’accetta per esasperare quella che è la politica reale (un po’ diversa dai partiti senza un’identità) portando sul precipizio le comunità dei sindaci e dei paesi.
Anche le province si stanno muovendo per non farsi dimenticare. Non parlo delle province intese come enti, ma come comunità identitarie. Ad Asti un gruppo di amici ha inventato un giornale, per esprimere il proprio sentire, l’appartenenza astigiana che nessun atto politico potrà mai cancellare. Queste sono le cose vere, sono atti di unione reale. E queste soltanto rischiano d’essere azioni di vera politica.
Domani a Genova si apre il 1° Salone delle Identità Territoriali. Tre giorni in Fiera, con 200 Comuni che metteranno in mostra i loro beni identitari, molto spesso legati a un cibo, a un prodotto o a una ricetta. Tre giorni per dire che la parola patria la si capisce dalla prossimità.
Se non la si considera così, l’Italia diventa matrigna, quasi come l’Europa che voleva negare gli aiuti promessi del terremoto. È questo il risultato del governo dei tecnici che avevamo accolto con una certa speranza? È questo il rigore di un governo che ha il volto del rigor mortis? Come mi sembrano veri quegli slogan che gridavamo ai tempi dell’università: la prima politica è vivere. E vivendo affermi il valore di un paese, di un luogo, di una piazza e di una chiesa. Un paese che ha il tuo nome, “che non è una sorpresa, son dieci vigne sei case e una chiesa – canta il medico di Rocchetta Tanaro Paolo Frola – il mio paese non è una scoperta, ma il cielo è una coperta sulla campagna estesa”. È la forza di un’identità, che Genova celebra con coraggio per tre giorni e che ha dentro questa poetica tenerezza. Che è quella dei giovani del mio paese, che dopo 50 anni hanno ristrutturato la torre saracina a loro spese, oppure dei giovani amministratori di San Damiano, che parlando del cappone pensano all’Expo del 2015.
E quello dell’Expo sarà un tema molto dibattuto a Genova, perché sarà proprio il festival delle identità dei nostri territori e dei loro tesori. Mettiamoli in mostra, prima che un dirigismo insensibile che usa l’accetta ce li porti via, o, semplicemente, li lasci nell’agonia di un patto di “instabilità” sociale, che potrebbe scoppiare da un momento all’altro. La corda non si può tirare all’infinito: se manca l’elasticità si spezza.