La Giornata nazionale della Colletta alimentare riserva sempre degli episodi, dei casi, delle evidenze, che sono letteralmente incredibili, spiazzanti per una società come la nostra. Episodi, casi che sono in controtendenza rispetto a tutti i “luoghi comuni”, ai discorsi noiosi e scontati sulla solidarietà (c’è proprio bisogno di ricordarlo che ci vuole solidarietà in una società civile?), sui valori etici, sul senso di responsabilità, sulla moralità che, detta nel modo che conosciamo, sconfina quasi sempre in moralismo.
La Giornata della Colletta la viviamo sempre come una grande festa, o, come la definiva uno dei due fondatori del Banco Alimentare: “La giornata in cui va in scena lo spettacolo della carità”. Quella cristiana, tanto per intenderci bene, quella ricordata da San Paolo nelle sue Lettere, che era un “più” di tutto: della tolleranza, della stessa solidarietà, del rispetto e dell’amore verso le persone, verso gli altri. E questa giornata non ci delude mai. Può piovere o esserci il sole, possiamo vivere in un momento di crisi economica devastante oppure di “società affluente”, come diceva John Kenneth Galbraith, ma il semplice, semplicissimo, gesto di un dono fatto da una persona a un’altra persona fa riscoprire a tutti il tratto distintivo, il vero “dna” dell’umanità a questo mondo un po’ bislacco, che da tempo viene definito postmoderno.
Il dono non fa piacere solo a chi lo riceve, ma fa piacere anche a te, a chi lo fa. Abbiamo un ricordo personale, di cronista di guerra al confine tra Turchia e Iraq nei primi anni Novanta. Arrivò un signore ricco dall’Italia con il suo areo personale carico di generi alimentari. Caricò delle casse su una jeep e si diresse verso un campo di profughi curdi iracheni. Disse solo una cosa, con le lacrime agli occhi: “Ho portato delle tavolette di cioccolato. Voglio vedere la faccia di un bambino, non sporca del sangue della guerra, ma la faccia di un bambino sorridente sporca di cioccolato. Non sono un credente, voglio solo la felicità delle persone. Semplicemente un po’ di felicità. Per questa ragione sono arrivato sino qui”. Chi era quella persona? Un pazzo? Uno stravagante? No, semplicemente un uomo nella sua vera dimensione.
Ci spiegano che ieri una signora di 85 anni ha speso cento euro, risparmiati per tutto un anno, per comperare del cibo destinato a chi cibo non ne ha. C’è un ragazzo imprigionato nel carcere di Nisida che si commuove di fronte al gesto della carità, del dono di generi alimentari, contenuti in un pacco, ad altre persone. Davanti a un supermercato, un giovane nero che vende accendini (quelli che a volte ti infastidiscono con le loro offerte) a un certo punto è andato a comprare pane e latte per consegnarlo ai volontari della Colletta e quindi per regalarlo ai poveri.
Il dono, la riappropriazione della propria umanità e del mistero della carità nel rapporto con gli altri, non conosce classi sociali, ceti abbienti o poveri, nazionalità o culture differenti, non ha confini geografici, culturali, religiosi. È proprio impresso nel “cuore” dell’uomo ed è la sua parte più nobile, più grandiosa.
Anche in un linguaggio postmoderno si potrebbe chiamare proprio divina, perché lo è di fatto. È quella parte che dovrebbe essere educata, valorizzata, coltivata con attenzione. Spiegava don Luigi Giussani, in un passaggio fondamentale del suo grande libro L’io, il potere e le opere, che quasi tutti, di fronte a una persona in difficoltà, provano un moto di carità, uno slancio immediato di aiuto. Il problema è fare in modo che questo slancio non sia episodico, ma divenga educazione, consuetudine. Tutto questo non porta solo a diventare un buon cristiano, ma è la base per una società migliore, con dei cittadini maturi.
Aveva ragione. Nel dono c’è un reale collegamento con il tutto che ti circonda e nello stesso con il mistero, perché il dono viene da un impulso razionale, normale, naturale. Accettare questa realtà, senza strani contorsionismi dialettici o banali ideologismi, è una prova di grande maturità. Significa innanzitutto accettare la propria condizione umana di bisogno, significa accettare la nostra limitatezza e abbracciare anche i limiti degli altri. Il gesto semplice, diventa una realtà vissuta che ti sconvolge al tuo interno e ti fa alla fine stare in pace con te stesso, perché ti riconcilia con la tua vera natura.
È inevitabile però pensare, in un momento come quello in cui viviamo, a quale significato ancora più spiazzante e più grandioso arriva il gesto del dono. Viviamo in un periodo di devastante crisi economica, la cui natura è scritta nell’avidità di un’umanità che si era dimenticata persino del valore del lavoro e si era innamorata della rendita finanziaria, stampando una serie di cosiddetti “prodotti sintetici” finanziari che la maggioranza delle persone neppure comprende. Ogni giorno restiamo quasi intronati dal linguaggio dei “nuovi scribi egizi” del mondo virtuale del mercato mondiale: lo spread, il deficit, il rapporto tra denominatore (Pil) e numeratore (debito), la crescita e la decrescita. E poi la virtù dei “tecnici” che fanno quadrare i bilanci spremendoci di tasse e rompendo quel poco di equilibrio sociale che ancora esiste.
Ebbene, in questa foresta di neologismi e di idiomi per “iniziati”, l’ultimo “sabato di novembre” rispetta ogni anno il suo appuntamento con milioni di persone, con centinaia di migliaia di volontari in tutta Europa che celebrano, con grande impegno e grande semplicità, la Giornata della Colletta alimentare, cioè la raccolta di cibo da dare a chi non riesce più nemmeno a risolvere le sue prime necessità. Consiglio spassionato da un vecchio masticatore di politica: al posto di fare summit europei che si risolvono sempre in un flop, al posto di strologare, senza mai realizzare, i famosi fondi salva-stati e di decidere se aiutare o meno la Grecia, perché gli esponenti della nuova politica mondiale ed europea non vanno a farsi un giro nei supermercati in questo ultimo “sabato di novembre”?