La domanda è di quelle facili, facili: come parlare di Dio nel nostro tempo? A porla Benedetto XVI, questa mattina, durante l’udienza generale. Nonostante un Sinodo sull’Evangelizzazione appena concluso, un Concilio celebrato proprio per sviscerare il tema e il fior fiore dell’intellighenzia teologica e pastorale alle prese, da 50 anni a questa parte, con il “come” del quesito. Uno straccio di conclusione, per la verità, manca. E il Papa, missionario per struttura, avverte l’urgenza di dare concretezza ad un Anno della Fede fino ad oggi un po’ confuso. Le sue catechesi illuminano lo svolgimento opaco di un evento straordinario, indicano un metodo e una strada da percorrere. Hanno il pregio di scomporre il problema nella sua elementarità: Gesù ci ama, è entrato nella nostra vita, ci ha reso felici, dobbiamo dirlo a tutti. Sono i termini – talmente chiari e semplici da spiazzare ogni possibile, pretestuosa e contorta obiezione – con cui Ratzinger dipana la questione su cui si arrovella da anni la Chiesa assediata dalla modernità. Siamo sicuri, infatti, che la complessità post- moderna richieda un’altrettanta elaborata strategia? Il Papa sembra pensare di no. E’ vero siamo immersi in una cultura “distratta” da tanti “bagliori”, pagine e pagine di sociologia, psicologia e semiotica hanno ridefinito la struttura cognitiva dell’uomo informatizzato, realtà virtuali si rincorrono e si accavallano ma in fondo, proprio in fondo, il cuore dell’uomo non desidera sempre l’Infinito, non avverte una promessa di felicità per sé? E poi c’è una Verità troppo spesso ignorata dai “Cristoscettici” di mestiere: l’iniziativa è di Dio, Lui c’è. La prima risposta che il pontefice tedesco spiattella è un assioma di fede: “noi possiamo parlare di Dio, perché Egli ha parlato con noi”. L’approccio non è filosofico, ma esperienziale: il Dio di cui parla il Papa non è un’ipotesi lontana, buona per chi deve vagliare il tutto attraverso schemi logici e protocolli scientifici, né una intelligenza matematica, ma qualcuno che ha scelto il fango e la carne, che si è immerso nel mondo e nella Storia, per insegnare “l’arte della felicità”.
Un Dio concreto, concretissimo, con un volto, quello di Gesù di Nazareth, e un metodo che passa per l’umiltà. Il rimando è a quel bellissimo volume che Joseph Ratzinger/Benedetto XVI ha donato alla Chiesa pronta per il Natale, dove il Mistero dell’Incarnazione è analizzato con tenerezza non comune e profondità esegetica. La lezione di quelle pagine come delle parole pronunciate questa mattina davanti a 5000 fedeli è nel recupero della “semplicità”, nel ritorno “all’essenziale” dell’Annuncio. E anche ad una tradizione che fornisce infiniti esempi di comunicatori efficaci del Vangelo. Paolo ad esempio, l’apostolo che scriveva ai Corinzi, “non con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso” (2;1-2). Poca filosofia, nessuna ideologia. Solo la realtà viva di Cristo, quella familiare presenza che aveva sconvolto la sua esistenza a Damasco. C’è da chiedersi perché oggi questo sembra non bastare più. Perché ci si preoccupa di molte cose, dai numeri in caduta libera all’indice di gradimento dei principi non negoziabili, ma ci si rifiuta di riconoscere e vivere pubblicamente l’unica Verità irrinunciabile. Il Papa sembra suggerire una risposta. Per parlare di Dio, bisogna fargli spazio. E guardando alla nostra vita prima e alla Chiesa poi, ci si accorge che se gli abbiamo riservato un angolo polveroso è già tanto.