Mi è capitato di ascoltare una trasmissione in radio dedicata all’acceso dibattito sulle politiche di fine vita correntemente in atto negli Stati Uniti. L’ospite era una delle consulenti dell’associazione Compassion and Choices (Compassione e scelte), la quale offre assistenza e informazione ai malati terminali che desiderano affrettare il proprio decesso. In tre stati americani, l’Oregon, il Montana e lo stato di Washington, l’eutanasia è stata legalizzata e associazioni come Compassion and Choices sono molto attive nell’offrire consulenza a malati e familiari. Questi devono infatti passare per una complessa trafila burocratica prima di ottenere la prescrizione della dose letale, in genere di barbiturici, che il paziente assumerà a casa propria o in clinica. In tutti gli altri stati Compassion and Choices cerca per ora di suggerire agli interessati opzioni di fine vita legalmente accettabili, pazientando finché altri Death with Dignity Act (questo è il nome dato alla legge nell’Oregon) vengano varati.
Penso di avere raramente sentito pronunciare la parola compassione così tante volte all’interno di un unico discorso. È una parola della quale tendo a diffidare, considerando la storia piuttosto torbida alle sue spalle. Secondo Rousseau, padre dell’illuminismo francese, la compassione reciproca sarebbe sufficiente, allo stato di natura, per garantire una convivenza pacifica tra gli esseri umani, senza bisogno che questi vengano gravati del peso dell’etica o della teologia. Di lì a poco nel nome della compassione si sarebbe inventata la ghigliottina.
In ogni caso, ho trovato particolarmente rilevante un dato riferito dall’ospite radiofonica: la quasi totalità dei pazienti terminali che chiedono la morte non lo fa perché non riesce più a tollerare il dolore fisico. Le cause addotte sono principalmente tre e in quest’ordine: l’impossibilità di praticare le attività piacevoli che si potevano praticare prima della malattia, come andare in vacanza, giocare con i nipotini o anche solo passeggiare al parco; la frustrazione dovuta al fatto di non essere autonomi; la sensazione di avere perso la propria dignità.
È significativo notare come nessuna di queste tre cause sia in realtà legata in modo specifico alla malattia. È possibile che una persona non possa più fare cose che amava fare per il subentrare di nuove circostanze avverse: i nipotini possono doversi trasferire in una città lontana, si può perdere il lavoro e non potersi più permettere di andare in vacanza, si può non essere più autonomi perché si deve accudire un neonato o sentire di aver perso la propria dignità perché costretti ad un mestiere considerato umiliante, e così via. Le uniche condizioni specificamente legate alla malattia, cioè il disagio e il dolore fisico, non sono affatto rilevanti per coloro che chiedono l’eutanasia.
Tuttavia, si potrebbe ribattere, chi si trova in una delle situazioni menzionate per cause non legate ad una malattia può per lo meno nutrire la speranza che le cose in futuro cambino: che i nipoti tornino a casa, che una vittoria alla lotteria permetta nuovamente di andare in vacanza oppure che arrivi l’offerta di un nuovo lavoro. Se questa speranza muore o non si ha il coraggio di vivere aggrappati ad essa, c’è chi decide di compiere il gesto estremo e si toglie la vita.
Ma in questo caso, mi domando, saremmo pronti a garantire la nostra compassione nel senso di accondiscendere alla decisione di togliersi la vita? Non credo. E non credo nemmeno che questo derivi dal fatto che riteniamo doveroso aggrapparsi alla possibilità di un futuro migliore. Proveremmo certo pena e compassione, come l’abbiamo provata per tutti quegli imprenditori che si sono tolti la vita a fronte della crisi. Ma ciò che fa realmente compassione è che un essere umano possa arrivare a identificare la consistenza ultima di sé nelle attività che intraprende, o che non si sia mai reso conto che in nessun istante della vita si è autonomi fino in fondo, oppure che non abbia mai fatto esperienza della dignità profonda di sé che travalica ogni circostanza avversa.
La vera compassione nei confronti del malato terminale, come dell’imprenditore fallito, come del disoccupato senza speranza, accende il desiderio di somministrargli non la dose letale di barbiturici ma la verità, così semplice e rinfrancante, espressa dalle parole di San Paolo: “Non sapete che siete tempio di Dio? E che lo spirito di Dio abita in voi?“
La trasmissione radiofonica si è conclusa con una nota di autenticità inaspettata che ha illuminato il grigiore della giornata bostoniana e della conversazione ascoltata fino a quel momento. La conduttrice ha chiesto a bruciapelo all’ospite: “Lei ci pensa mai alla sua morte?” Dopo qualche secondo di silenzio imbarazzato la risposta è stata: “È una domanda interessante… in questo momento, intellettualmente credo di sapere come sarà e a quali condizioni non vorrei più vivere. Però onestamente devo dire che non so che cosa vorrò. Non so come sarà e quando uno sperimenta queste cose in prima persona tutto può cambiare. Nelle ultime settimane di vita, quando non possono più muovere neanche un dito, ho visto pazienti gioire visibilmente per un tramonto o per quell’unico cucchiaio di brodo che riuscivano a ingerire. Per loro era meraviglioso! Non avrebbero rinunciato a quel cucchiaio di brodo per nulla al mondo”.
Per noi che siamo ancora vivi e non pensiamo per lo più alla morte è bello sapere che è possibile morire così, con la dignità di chi, al limitare della vita, si accorge che la meraviglia di un tramonto è densa di un significato che dà gioia gustare fino all’ultimo istante. E ci auguriamo che sia loro sia noi abbiamo sempre al nostro fianco, da questo istante fino all’ultimo, testimoni che ci documentino nelle parole e nelle azioni dove sta la nostra vera dignità.