A Carrara, davanti al luminoso duomo di Sant’Andrea, che sfodera il celebre marmo bianco che affascinava Michelangelo, hanno preparato il presepe per Natale. Una tenda, in mezzo al piazzale, con dentro bidoni di metallo al posto della Sacra Famiglia, e il bambinello è uno scheletrino bianco, una cosina in resina circondato da foto di guerra, stordito da una colonna sonora di raffiche di mitragliatrice, scoppi di bombe, spari, mescolati a cori angelici natalizi. Più che un presepe, ci spiegano, un allestimento, a scopo provocatorio. Si richiama a un fatto di cronaca che lo scorso inverno aveva scioccato la città: una donna ucraina trentenne, al settimo mese di gravidanza, era morta di stenti nella baracca che abitava in un’area industriale dismessa, alla periferia. Una botta allo stomaco per far riflettere sull’emarginazione, la solitudine, l’ipocrisia di chi festeggia senza pensare a chi soffre e alle troppe guerre dimenticate.



Giustissimo. Anzi, no, chiacchiere, fin troppo sentite. Lo cantavano già i Nomadi, che Dio era morto. Non c’è che dire, è storia. Ma terminavano la loro canzone leggendaria con la Sua Resurrezione, perché il desiderio dell’uomo, la sua fiducia, la sua speranza non possono rassegnarsi alla morte, alla disperazione. Al peccato, proprio e altrui. Alla follia, alle atrocità più insensate e bestiali. Dio muore per morire con noi, e risorge come noi risorgeremo, come noi possiamo risorgere ogni giorno. E’ venuto per sconfiggerla, la morte.

Ma questa è materia di fede, che pure è sacra e importante per molti, e dunque da rispettare. Altrimenti, siamo alle installazioni di Cattelan, che non a caso hanno suscitato scandalo e polemiche: bisogna che la gente che si reca a pregare in Duomo, chi ne ammira la bellezza, non sia respinta, orripilata e costretta ad allontanarsi in fretta. Perché un bambino morto davanti alla chiesa è più di una provocazione per la nostra scarsa sensibilità alle sofferenze degli uomini: è uno sputo voluto in faccia alla Chiesa tutta, alla sua tradizione, ai suoi santi, alla sua parola che, nonostante i fraintendimenti e gli errori della storia e degli uomini, è parola per gli ultimi, i poveri di spirito e gli abbandonati.

Messaggio efficace: ciò che vi raccontano è falsità, gli incensi e le processioni e le carole festive, gli altari addobbati, le candele accese… Abbandonatevi piuttosto al tormento, spogliatevi di ogni bene, flagellatevi in solitudine per le tragedie del mondo. Più semplicemente, andate ad ingozzarvi di tacchini e panettone senza passare in Chiesa. Un sano epicureismo, per chi non ha la vocazione terzomondista di lasciare tutto, la sensazione di essere un po’ più a posto con la coscienza. Altro che Natale, guai a festeggiare, si fa per la famiglia, i bambini, ma non ci crediamo, per carità… e c’è sempre il mercatino equo solidale per sminuire i sensi di colpa. 

E’ la solita storia degli ori di San Pietro, delle splendide cattedrali costruite per volontà e col sudore di tanti uomini comuni, artigiani, scalpellini, da donazioni di tanti uomini e donne della strada, che volevano un posto nel regno del cielo, di cui la loro chiesa era segno.

Ogni costruiamo chiese molto sobrie e molto simili a garage. Con il risultato, strategicamente calcolato, temo, che si riducono ad architetture tristi e vuote, dove non ci si sente accolti e invitati a pregare. Volete un Cristo morto? C’è. Nelle Sacre rappresentazioni della Settimana Santa la tradizione cristiana si è sbizzarrita a mostrare il suo volto più insanguinato e toccante, non ha mai nascosto le sue ferite, le sue piaghe. Chi ha sfilato davanti alla Sindone lo sa. I cristiani non hanno paura del Cristo morto. E’ storia, che l’hanno crocifisso, e sepolto. Sanno che alzerà il piede per uscire dal sepolcro, gettando le bende, e ribaltando la natura e il corso naturale del male. Ma siamo a Natale. A Natale c’è una nascita, non una morte. A Carrara hanno messo in scena un falso.

A Natale, che lo si voglia o no, si celebra una Nascita. Si dà compimento a un’attesa. Si celebra un evento che ha cambiato il mondo, avvenuto nel nascondimento, nell’umiltà. E’ per tutti, non solo per i ricchi coi pacchi dono dello shopping festivo. Per tutti, anche per chi non crede che la sua vita possa avere un senso, che il male possa essere cancellato. Perché quel bambino è troppo, troppo un segno di grazia e bellezza e consolazione. Anche lasciando scorrere i sentimenti dal cuore, anche lasciandosi intenerire dalla sua inermità. Quella donna ucraina non morta, ma uccisa dalla nostra incapacità politica, dalla nostra indifferenza sociale, avrebbe trovato calore e forse un sorriso davanti a un Presepe. 

Avrebbe visto in quel Bambino il suo bambino, e cercato, nel calore di quel segno, nella luce di quel momento, una mano amica. Davanti all’allestimento di Carrara non c’è posto che per la paura, la disperazione, il cinismo di chi, comunque, si gira dall’altra parte stringendosi nelle pellicce, per ordinare lo champagne del brindisi di mezzanotte.