L’Italia arranca. Vi è una comune percezione del fatto che il Paese si sia generalmente impoverito. Una sensazione certificata dagli ultimi dati dell’Istat. Secondo i quali, nel 2011, ben il 28,4% dei cittadini residenti era a rischio di povertà o di esclusione sociale. La situazione, rispetto all’anno precedente, è peggiorata di 3,8 punti percentuali. L’indicatore, inserito in un sistema europeo, è composto da tre parametri, tutti decisamente negativi: il rischio di povertà (è passato dal 18,2% al 19,6%), la severa deprivazione (dal 6,9% all’11,1%) e la quota di persone che vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro (10,5%). Abbiamo chiesto a Giancarlo Blangiardo docente di Demografia nell’Università Bicocca di Milano come interpretare questi dati.
Tanto per cominciare, che validità hanno?
Dati di questo genere, dal punto di vista assoluto, sono probabilmente sempre discutibili. E’ legittimo, ad esempio, porre delle obiezioni sui criteri adottati per definire in cosa consista lo stato di povertà o di esclusione sociale. Ciò che, invece, è insindacabile, qualunque siano i parametri usati, è la variazione tra un anno e l’altro. I dati dell’Istat, in sostanza, riflettono una dinamica e un cambiamento in atto estremamente significativi.
Su che livello di vita ci stiamo allineando?
Che il momento non sia felice, è evidente. Tuttavia, siamo ancora ben lungi dall’entrare in un contesto realmente drammatico. La percezione della povertà cambia con il corso delle generazioni. Tuttavia, in generale, una persona che oggi è considerata vicino alla povertà, qualche decennio fa sarebbe stata annoverata tra il ceto medio.
Cosa intende?
La maggioranza delle persone che l’Istat colloca nella fascia di rischio povertà riesce a soddisfare i propri beni primari irrinunciabili: la casa, il vestiario, l’alimentazione. La verità è che si sta erodendo quel benessere che ci eravamo conquistati nel tempo. E la crisi sta continuando a metterlo a repentaglio.
Su queste pagine, Gaetano Troina affermava che, probabilmente, usciremo dalla crisi; ma nel senso che si sarà estinta l’emergenza. Non torneremo, invece, allo stile di vita precedente, se non nell’arco di svariati decenni.
In effetti, la maggior parte degli studiosi afferma che questa crisi non è congiunturale ma strutturale. Quando e se ne usciremo, il paniere dei consumi ne risulterà comunque influenzato.
C’è il rischio che si inneschi il conflitto sociale?
Non credo. La gente, pian piano, inizia a dover rinunciare a beni che prima riteneva indispensabili. Con il tempo, l’amarezza viene sostituita da un sano realismo. Ci si rende conto che alcune cose non sono più accessibili. E prende piede la consapevolezza del fatto che siamo tutti sulla stessa barca, nel tentativo di ricostruire un equilibrio. Solo un fattore potrebbe rivelarsi destabilizzante.
Quale?
In tempo di ristrettezze, non c’è niente che rischia di far infuriare di più i cittadini che vedere qualcun altro che spreca, godendo di inaccettabili privilegi. Mi riferisco, in particolare, alla classe politica. E, francamente, siccome non credo che sia composta da uomini così poco accorti, dopo aver tirato tanto la corda, alla fine darà un segnale. Magari, superficiale e privo di sostanza. Ma in grado di scongiurare il rischio che la gente scenda in piazza con i forconi. Va anche detto, in ogni caso, che l’ipotesi è altamente improbabile perché il ceto maggiorante colpito dalla crisi è quello medio.
Quindi?
Difficilmente il ceto medio si lascia trascinare in proteste di piazza o manifestazione rivoluzionarie. Non credo neanche che il rischio di disordini possa provenire dal ceto più basso. E’ quello che, infatti, in questi anni ha avuto maggiormente accesso ad una serie di misure volte a temperare gli effetti della crisi, quali gli ammortizzatori sociali. E l’ipotesi che vinca Bersani, probabilmente sta rasserenando gli animi di molti lavoratori appartenenti alla fascia economica più bassa, convinti che dopo anni di sacrifici, cui sono stati sottoposti mentre al governo c’era la destra, le cose possano cambiare.
(Paolo Nessi)