Non ho consuetudine particolare con Alessandro Sallusti. Ma ieri sera dopo la sua conferenza stampa al Giornale, in attesa che solerti funzionari gli notificassero l’arresto, gli ho mandato un sms insieme a mio figlio, diciassettenne, che fremeva. “Grande, direttore, grazie”.  Perché nelle sue parole c’era una dignità, una statura umana. Un coraggio, una sprezzatura, nella coscienza di una realtà tragica, che solo la voce tremante, a tratti, tradiva. Non voglio farla lunga: non è tempo di eroi, purtroppo, né Sallusti vuol essere considerato tale. Ma triste il tempo in cui anche una testimonianza di libertà e temeraria audacia viene trascurata, oscurata, annacquata da un sarcasmo cinico e feroce. Le pungolature su casa Santanchè, prigione dorata, privilegio di casta, perché la perdita della libertà, per un giornalista, non è pena sufficiente. Forse perché non ci sono più giornalisti, ma pennivendoli buoni per oliare di petrolio maleodorante le pagine su cui scrivono, perché riescano meno ruvide alle varie consorterie che tengono ben stretto il potere. Chissà che avrebbe detto e scritto e fatto Montanelli, in queste ore. Tocca riandare a lui, per recuperare l’immagine di una professione che ha nella libertà di pensiero e parola la sua vocazione.



Si dice che Sallusti ha sbagliato, a non rettificare, a non chiedere scusa, a non pagare ancor più lautamente l’accusatore (un giudice, lo ricordiamo). Può darsi, ma non è questo il punto. Si dice che l’autore del pezzo incriminato avrebbe dovuto palesarsi prima: come se un direttore non dovesse difendere un collaboratore, quand’anche in incognito. Come se non sapessero tutti, avvocati e giudici, chi si celava sotto lo pseudonimo Dreyfus, che peraltro si era confessato tale addirittura in un libro. C’è stato un altro articolo, sul quotidiano che allora dirigeva Sallusti. Due indizi fanno una prova, e si è parlato di campagna, peccato che l’articolo numero due fosse firmato da un noto avvocato, che però non è stato mai denunciato, mai. Ma non è questo il punto. Qualche pasticcio i suoi avvocati difensori devono pur averlo fatto, perlomeno di omissione o superficialità, se dopo quattro anni non si è riusciti a venire a capo della faccenda. Ma non è questo il punto. O forse in parte sì: il sospetto è che non si volesse affatto venirne a capo.



Che si sia orchestrata una campagna a bella posta contro un direttore scomodo e cattivo: curioso, chiedete qua e là ai redattori che hanno lavorato con lui. Raramente parlano meglio di un capo, con stima, con riconoscenza per essere stati sempre considerati, valorizzati, spronati. Curioso, riferirsi alla casta per un giornalista il cui curriculum ha deviazioni anomale, uno che ha mollato un posto da caporedattore centrale al Messaggero per adattarsi a fare il redattore semplice al Corriere, pur di sentire l’odore leggendario del piombo di via Solferino. 

Che ha lasciato una direzione per tornare al giornaletto della sua provincia, L’Ordine di Como, per  essere libero di cercare notizie e scriverle. Se non avesse fatto l’errore di dirigere un giornale della famiglia Berlusconi, se avesse optato per un’altra testata, Sallusti non sarebbe stato giudicato un delinquente abituale. A certi direttori i magistrati danno buffetti sulle guance, fanno rimbrotti, ma senza strapazzarli troppo.



Si dice che la diffamazione è un delitto vero, da sanzionare e punire con severità: è sacrosanto, ma ricordiamo alla nausea che l’articolo in questione era un commento, non un pezzo di cronaca, come quello sul quotidiano La Stampa da cui era desunto. Esagerato nei toni, ingiusto nei contenuti. Ma nasceva dall’indignazione sincera per la violenza subita da una ragazzina costretta dagli adulti intorno a lei ad abortire, e non poteva avere la forza di opporsi. Gli errori si pagano, sonoramente. E si chiede scusa, si pubblica una smentita. Sallusti afferma di non aver mai letto quel pezzo, e di non averlo poi approvato. Chiedete a qualunque direttore se legge ogni giorno riga dopo riga quel che esce sul suo giornale. Ma non è questo il punto.

Il punto è che questo è un paese in cui si violano le redazioni dei giornali (di un giornale, non di tutti), si arresta un giornalista per non aver vigilato abbastanza, e lo si condanna come criminale. Poi gli si concedono  i domiciliari, perché il can can mediatico non monti troppo, e non costringa a discutere seriamente dello strapotere della magistratura, e di una legge anacronistica e fascista che, guarda caso, piace a mezzo arco parlamentare, di qua e di là. Poteva accettare buono e zitto di passare qualche tempo chiuso in casa?

A mio figlio diciassettenne questo sarebbe sembrato vile e compromissorio. Un criminale va in galera, come tutti gli altri. A mio figlio diciassettenne pare incomprensibile che tutti i giornalisti italiani, il quarto potere, la casta impunita, appunto, non incrocino le braccia, non scendano in piazza, non listino a lutto le loro testate. Un gesto comune, senza se e senza ma. Non conta essere d’accordo, condividere scelte politiche, idee e stile. In questo paese non succede. A mio figlio diciassettenne sembra impossibile che il Presidente della Repubblica, capo del Csm, non abbia già chiuso questa brutta pagina della nostra giustizia, e che possa tentennare a prendere carta e penna per siglarne con la grazia la parola fine.  A mio figlio diciassettenne non piace crescere e vivere in un paese così, se ne vergogna.

A me che cerco di spingerlo a  guardare in alto, ad avere fiducia, a costruire qualcosa di bello, mancano le parole. Penso solo a un uomo in prigione, umiliato, a un uomo che è stato malato, di cuore. Non è indegno o pietistico pensare anche a questo, perché un conto sono i principi e le chiacchiere, un conto le persone. Penso che Guareschi ha passato le stesse pene, cinquant’anni fa, e quanto ne ha sofferto. Ce ne siamo accorti decenni dopo. In molti oggi lo considerano un grand’uomo.

In carcere ce ne sono tanti, ingiustamente detenuti, e in condizioni indecorose. Appunto. Poiché la politica è stata sorda agli scioperi della fame e agli appelli trepidi di un Pontefice, tocca ancora a chi ha il potere della parola subire e tentare si smuovere le nostre coscienze tiepide e accomodate. Guardate in faccia Alessandro Sallusti, anche se vi sta antipatica, oggi, paragonatelo con i boss della camorra arrestati negli ultimi giorni, che spocchiosi agitavano le manette facendo il segno di vittoria agli amici accorsi plaudenti. Dite voi se Sallusti è un delinquente pericoloso. Dite voi se la nostra giustizia è giusta. E se possiamo sopportare, in quest’Europa immemore della sua storia, che per i pensieri e le parole qualcuno venga privato della libertà. Che noi e i nostri figli veniamo privati della libertà.