E chi lo sapeva che l’albero di Natale è un simbolo religioso? Me lo ha ricordato Paolo Merli, delegato del club Papillon di Piacenza, andando addirittura all’anno 724 quando san Bonifacio individuò nell’abete sempreverde il simbolo di Cristo e della speranza. Nel 1982 anche Giovanni Paolo II – mi ha ricordato sempre Merli – volle in piazza San Pietro quel simbolo che aveva a che fare con la tradizione cristiana. E persino gli addobbi rappresentano il dono che nasce dalla fede. Lo disse sempre papa Giovanni Paolo il 19 dicembre del 2004 parlando dell’albero come simbolo di una vita sempreverde, che non muore. Si pone così fine – si fa per dire – alla diatriba tra chi è per l’albero e chi per il presepe, anche se, in verità, stiamo dimenticando molto della storia dei simboli, lontani sempre di più dalla contemporaneità.



La cosa più paradossale accade quando ci si reca in una chiesa antica (ad esempio, nella Sagrada Familia di Barcellona) e la simbologia  – anche in questo caso è molto forte quella riguardante gli alberi – deve essere spiegata da una guida. Già, perché il paradosso sta proprio nel fatto che la maggior parte dei simboli è stata creata per rendere visibile al popolo, in modo semplice, concetti più profondi, astratti. E i popoli dell’antichità erano, immagino, meno colti di quelli odierni, nonostante sapessero leggere e interpretare i segni… Oggi, invece, pare si sappia leggere solo l’sms sul telefonino, magari mentre ci si trova di fronte all’immensità del Duomo di Milano.



Cos’è il Natale, oggi? Già, come si fa a rispondere a questa domanda, quando la magia di questa festa che vivevamo da piccoli, pare essere stata sepolta dagli spread, dall’Imu e dalla discesa in campo di questo o di quello – sempre che la cosa appassioni davvero la mente della gente. Parlare del Natale come una festa del passato è un po’ simile alla situazione di coloro che andavano all’oratorio pensando che quel luogo, in fondo, non sarebbe mai stato decisivo per la propria vita. Come se l’oratorio o il cinema fossero la stessa cosa, senza l’umano che ti viene incontro, ti chiama per nome, ti incoraggia, ti abbraccia. Guardo il Natale di quest’anno: i miei figli, mia moglie, gli amici, i collaboratori. È questo il Natale? Sì, perché è anche la contemporaneità di una compagnia umana, una cosa preziosa che possiamo solo rovinare con le nostre paturnie quotidiane, i nostri sospetti, la poca limpidezza che rende torbida ogni cosa bella (e che peccato – nel senso vero del termine – perdere qualcuno o qualcosa, solo per colpa nostra).



In questo Natale mi viene da pensare alla Giovanna, che festeggerà nella sua trattoria delle Fefa a Finale Emilia, dove un tremendo terremoto, sette mesi fa, ha creato sconcerto e panico. Ma lei è ancora lì, sorridente come prima, e chissà quanta gratitudine avrà dentro di sé solo per il fatto di esserci. Io l’ho capito assaggiando i suoi piatti, che avevano dentro il gusto della partecipazione alla vita. Ma se andate più in là di qualche chilometro, a Polesine di Pegognaga, altro paese toccato dalla tragedia del terremoto, vi lascerà di stucco Davide Gibertoni.

 Lui è titolare del negozio Davide Cose buone (e buone lo sono per davvero), ma soprattutto lui è padre di un bambino affetto di una rara patologia, l’epidermolisi bollosa che necessita cure delicatissime. E proprio per la fragilità di queste creature, il nome della patologia, di cui è affetto un bimbo su 85mila, è quello “della farfalla”.

Davide non si è però perso d’animo e sulla sua esperienza ha scritto un libro bellissimo, Il sorriso di una farfalla, venduto in un cofanetto insieme a un libro di ricette ideate appositamente per bambini da prestigiosi chef. È un libro da leggere tutto d’un fiato e parla della forza misteriosa che trasmette il sorriso di un bimbo di pochi mesi che, nonostante l’inconsapevole malattia, vuole partecipare con passione alla vita. Ecco il senso del Natale di oggi: partecipare alla vita, a quello cui siamo chiamati, ognuno al suo posto. Non è fantastico tutto questo? Un piatto ben cucinato contiene la forza evocatrice di questo. Si mangia insieme a Natale, come la scena evocatrice del presepe con il bimbo nella mangiatoia, che è come il Giovannino di Davive che sorride, inerme e fragile, una presenza che apre a nuovi significati, che sconvolge la vita e riaccende il desiderio dell’avventura umana, Adesso, come il titolo del mio libro che amo di più; come il giornale di don Mazzolari, che abitava anche lui queste lande della Pianura Padana. E così è Letizia Maria, la figlia dei miei amici Alberto e Paola, che parla con la sua semplice presenza. E noi, ciascuno di noi, siamo presenti: è questa la contemporaneità che dovremmo portare al te Deum l’ultimo dì dell’anno, con la semplicità dei pastori, presi dalla loro solita quotidianità, ma inondati da qualcosa di eccezionale. O come il semplice twitt di Francesca di stamane: “Fino a quando ci sarà il Monviso, ci sarai Tu”.

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