Un Natale vicinissimo, angustiato da crisi economica, incertezze politiche, paure irrazionali e globalizzate. E poi un vecchio Papa che ci costringe persino a far scorrere i tweets in cerca di perle di saggezza, a pochi giorni dal ripetersi di quello che per molti è un trito e bonario rito di panettoni, luci e pacchetti luccicanti, spazza via la melassa del “si può dare di più” e “si è tutti più buoni” per parlare di Gioia e Grazia. Nell’udienza generale che introduce al Mistero più grande della Storia, Benedetto XVI ripete più volte con germanica durezza la parola che meglio caratterizza il suo cristianesimo. Gioia. Quella a cui invitava l’Angelo palesandosi alla Vergine Maria, finendo per illuminare la stanza di Nazareth, le pietre che sapevano di fuoco e pane azimo, l’anima di una giovane turbata ma non spaventata.
Il Papa ci trasporta in quel frammento di vita che in tanti dal Beato Angelico, a Leonardo a Lotto hanno provato a visualizzare e lo scannerizza, tecnologico com’è oramai, per farne percepire la decisività per la storia. Quel saluto – «Chaîre kecharitomene, ho Kyrios meta sou», «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te» (Lc 1,28) – è un invito alla gioia profonda- spiega Benedetto XVI – annuncia la fine della tristezza che c’è nel mondo, spazza via le angustie del cuore di fronte al limite della vita, alla sofferenza, alla morte, alla cattiveria, al buio del male, tutte cose che non si possono dissolvere semplicemente con le luminarie e i festoni natalizi. Attento esegeta, il Papa, confronta l’etimologia dei due termini e ci rivela che in greco hanno la stessa radice linguistica, charis: non una puntigliosità da professore ma la spiegazione del perché Gioia e Grazia sono legate dalla comunione in Dio, dalla “connessione vitale con Lui”, evidente nell’esperienza di Maria, molto meno nelle nostre pallide esistenze.
Perché è indubbio che guardandoci intorno in fila per pagare l’Imu, appiccicati vogliosi alle vetrine scintillanti, o triturati dalle ondeggianti perplessità di Monti o Berlusconi, di Gioia ne vediamo poca. Eppure c’è. Ci dovrebbe essere. Se questo Natale, dalla tredicesima striminzita e dalle speranze opache, ci aiutasse a riconoscere la vera Gioia, avremmo fatto il primo fondamentale passo per sconfiggere il drago-crisi. Benedetto XVI indica la strada, il cammino di fede e conversione che attende il cristiano: «Incontriamo momenti di luce, ma incontriamo anche passaggi in cui Dio sembra assente, il suo silenzio pesa nel nostro cuore e la sua volontà non corrisponde alla nostra, a quello che noi vorremmo. Ma quanto più ci apriamo a Dio, accogliamo il dono della fede, poniamo totalmente in Lui la nostra fiducia – come Abramo e come Maria – tanto più Egli ci rende capaci, con la sua presenza, di vivere ogni situazione della vita nella pace e nella certezza della sua fedeltà e del suo amore».
Vivere insomma nella Gioia, con Gioia. La prospettiva è senza dubbio allettante. Ma implica qualcosa a cui l’uomo del “tutto e subito” non è abituato: uscire da se stessi, rinunciare ai propri progetti, riconoscere il disegno di Dio. Gioia per sconfiggere il buio che pure l’uomo di fede conosce quando è stritolato dalle circostanze, ossessionato da un futuro pieno di incognite, martellato dalle profezie di sventura. Bisogna imparare a custodire nel cuore ciò che non si comprende. Come Maria, suggerisce il Papa, che “teneva insieme” tutto ciò che le stava accadendo, la bellezza del seme di Dio nel ventre e il presagio della crocifissione del Figlio. Il buio che ha attraversato la Madre di Dio, i grandi Santi, i poveri cristi che non arrivano a fine mese o non raccapezzano più il loro destino, è sconfitto dalla Gioia, dalla luminosità della Parola di Dio, da quella Sua promessa di salvezza, dalla certezza di un legame che persiste nonostante le mancanze umane. Abbandonarsi alla Gioia è infinitamente più consolante di una fetta di panettone (persino di quello al Cioccolato).