Valeva la pena ridurre all’osso, rimangiandosi la parola data, una cifra già di per sé estremamente esigua, ma in grado di produrre benefici sociali e umani (ma anche economico) incalcolabili? La legge Smuraglia aveva bisogno di poco meno di 5 milioni di euro per essere rifinanziata. Il provvedimento, nato nel 2000 per opera dei Senatori Carlo Smuraglia, Luigi Manconi e Ombretta Crisafulli Carulli, consentiva il reinserimento lavorativo dei detenuti, prevedendo sgravi fiscali per le imprese che li assumevano. Il fondo, nel corso degli anni, è stato via via ridotto all’osso fino a quando, nell’ambito della legge di stabilità, la commissione Bilancio del Senato ha deciso di destinare le risorse inizialmente previste per ampliarlo altrove. Abbiamo chiesto proprio a Luigi Manconi, docente di Comunicazione politica allo IULM di Milano, di spiegarci le implicazioni di una scelta del genere.
Ci parli, anzitutto, della nascita della legge.
La Smuraglia-Manconi-Fumagalli Carulli fu voluta da persone molto diverse tra loro: un “vecchio” comunista, un libertario (il sottoscritto) e una cattolica. Fu l’esito della nostra intesa e di una determinazione molto forte della commissione giustizia del Senato. Si ritenne che il provvedimento potesse rappresentare un’offerta alla popolazione detenuta importante e significativa. Fin da subito, tuttavia, la legge ebbe vita difficile e, per anni, fu finanziata, fino all’azzeramento attuale.
Come mai, su questo fronte, la cultura radicale, quella libertaria e quella cattolica si trovano d’accordo?
Stupisce, caso mai, che una cultura così diffusa, in Italia, come quella del cattolicesimo democratico, che sul tema della carceri ha l’autorevole conforto di pressoché tutte le cariche ecclesiali, non produca conseguenti e coerenti atteggiamenti da parte di quella classe politica che a quella cultura afferma di ispirarsi. D’altro canto, la sinistra è sempre stata poco generosa su questo piano perché, storicamente, ha privilegiato le garanzie sociali rispetto ai diritti individuali della persona.
Come si spiega, in ogni caso, la decisione del Parlamento?
E’ il segno più evidente di quella sfacciata ipocrisia che si sta manifestando nel coro pressoché unanime di solidarietà a Pannella. Tutti, infatti dimenticano le ragioni del suo sciopero. Il suo gesto viene presentato come una mera testimonianza individuale, un atto di religiosità laica, un segno di eroica sensibilità. Si dimentica che tutto ciò rappresenta una scelta politica di un uomo politico per un obiettivo politico.
Da dove nasce una tale ipocrisia?
Il tema delle carceri, politicamente, è ben lungi dall’essere remunerativo; talvolta, è addirittura svantaggioso in termini di consenso. Tanto più che i carcerati non possono farsi portavoce in prima persona delle proprie istanze, né ottenere la dovuta visibilità. Al contrario, una concezione vendicativa della pena spesso è politicamente conveniente.
Il rischio è che il lavoro carcerario sparisca definitivamente?
Guardi, già adesso, la percentuale di detenuti impegnati in attività lavorative raggiunge con difficoltà il 10% della popolazione carceraria. Di questo 10%, la parte più rilevante, è costituita da lavori volti al mantenimento delle carceri, quali il cuoco o i postini. Solo il 4% è impegnato in attività produttive o di formazione. L’azzeramento del finanziamento porterà tale percentuale vicino allo zero.
Non lavorare cosa comporta per un detenuto?
Tutti i detenuti che hanno come unico orizzonte la cella chiusa sono destinati ad una recidività elevatissima, salvo rarissime eccezioni; tutti quelli che hanno un qualche orizzonte diverso (attività lavorative, culturali, ricreative, sociali o formative) hanno chance di ri-socializzazione decisamente maggiori, sempre salvo rarissime eccezioni.
E per la società?
A fronte di un risparmio, tutto sommato, esiguo, c’è il rischio che si producano danni rilevantissimi, sotto il profilo sociale ed economico.
(Paolo Nessi)