Di loro non si ha più notizia dal 26 novembre. Nel massiccio degli Écrins, nel Delfinato, il maltempo imperversa da più di una settimana e di Luca Gaggianese, istruttore Cai di Milano, Damiano Barabino, 32 anni, cardiologo di Genova, e Francesco Cantù, 40 anni, primario di cardiologia dell’Ospedale di Lecco, i tre alpinisti che dieci giorni fa hanno scalato un difficile itinerario sulla parete sud della Barre des Écrins, si sono perse le tracce. E per i soccorritori francesi non ci sono più speranze di ritrovarli vivi.
Domenica 25 novembre i tre alpinisti portano a termine la scalata, a oltre 4mila metri di quota, ma il maltempo li sorprende quando sono ancora in alto. Tentano la discesa, ma duecento metri più in basso sono costretti al bivacco. Il giorno dopo chiamano i soccorsi, poi più nulla. Le condizioni della montagna diventano proibitive, in quota continua a nevicare, il rischio valanghe è altissimo e con raffiche di vento tra i 70 e i 100 chilometri orari le operazioni di volo sono quasi impossibili e troppo rischiose anche per i soccorritori. Il brutto tempo non dà tregua. Per la Gendarmeria francese non c’è più niente da fare. Già sabato scorso Stephane Bozon, comandante del Pghm di Briançon, aveva detto alle famiglie degli alpinisti che la loro possibilità di sopravvivenza era ormai prossima allo zero.
Un’altra tragedia della montagna, che ricorda molto da vicino quanto accadde nell’ottobre scorso sul massiccio del Monte Bianco, quando la guida francese Olivier Sourzac e la sua cliente Charlotte De Metz vennero trovati morti a quattromila metri, dopo una serie ininterrotta di giorni di brutto tempo che frustrarono ogni tentativo di soccorso. Questa volta gli alpinisti sono spariti dalla grande stampa, non si sa se per un’ultima forma di pudore verso la loro sorte ormai segnata. «C’è poco da fare – dice a Ilsussidiario.net Andrea Viano, guida alpina italiana trapiantata a Briançon ed esperta del Delfinato – anche oggi, nel 2012, la montagna ha ancora l’ultima parola. Solo un miracolo ormai potrebbe averli salvati».
Pare che per Barabino, Cantù e Gaggianese non ci sia più nulla da fare. Si può ancora morire così, non in Himalaya ma nelle alpi del Delfinato, esplorate da cima a fondo, senza lasciare traccia?
È ancora possibile, purtroppo. Abbiamo avuto un periodo prolungato di brutto tempo, è scesa moltissima neve, non ci sono tracce e i tre alpinisti non sono ancora stati trovati. Gli Écrins sono montagne anche più selvagge del Monte Bianco.
I tre alpinisti hanno completato domenica la salita della goulotte Gabarrou-Marsigny, poi sono stato sorpresi dal brutto tempo. Lunedì l’ultimo contatto. Secondo lei come sono andate le cose?
Difficile dire, si possono fare solo supposizioni. La loro via è una goulotte, una linea effimera che si forma solo in certi periodi dell’anno e in certe condizioni, quando la montagna è ancora secca ma comincia a nevicare leggermente e la fusione della neve durante il giorno, insieme al rigelo notturno, creano la colata. Il periodo ideale era proprio questo. I tre alpinisti hanno attaccato di buon’ora, quindi in orario, come da manuale, non so poi cosa possa essere accaduto, per quale motivo siano usciti così tardi, secondo le ultime informazioni verso le nove, le dieci di sera. Il maltempo li ha costretti al bivacco sul versante nord della motagna, quindi già sulla via di discesa. Solo che l’indomani il tempo era ancora pessimo e la quantità di neve caduta nella notta li ha dissuasi dal tentare. A quel punto si può presumere che siano risaliti in punta al Dôme e abbiano intrapreso la discesa sul versante sud.
Questo cosa significa?
Il versante sud del Dôme è più complesso, però a differenza del versante nord è roccioso e per questo offre più punti di riferimento. Sono riusciti in qualche modo ad arrivare da qualche parte perché, se non sbaglio, hanno fatto una telefonata verso le 16 di lunedì dicendo che stavano finendo le doppie, che sarebbero arrivati tardi ma sarebbero arrivati.
Dunque sarebbero discesi dalla difficile via di salita?
Non credo che abbiano fatto questo, dopo quella bufera e considerando la difficoltà della salita. Visto che uno dei tre conosceva già la montagna, potrebbero aver deciso di scendere dal versante sud, non nel settore della salita ma da un’altra parte, giudicata più abbordabile. Solo che trovare l’imbocco giusto dei canali, con quella visibilità ridottissima e in quelle condizioni, diventa molto, molto difficile. Poi la stanchezza accumulata nella salita, il bivacco, lo stress causato del brutto tempo e, ricordiamolo, il freddo, rendono tutto molto più complicato. Teniamo presente che a 3mila metri sono stati stimati fino a due metri e mezzo di neve farinosa, inconsistente e instabile. Muoversi diventa estenuante, difficilissimo.
Cosa pensa di quanto è accaduto?
La sfortuna in questa vicenda ha giocato non poco, ha legato le mani ai soccorsi, sarebbe bastata una schiarita in più e i tre potevano essere salvati. Esperienza, tecnica e allenamento giocano moltissimo, ma il rischio zero non esiste. E l’ultima parola spetta alla montagna, oggi come in passato. È ancora lei la padrona. È chiaro che quando succedono queste cose un errore è stato fatto, ma tutto questo fa parte di questo gioco, è la contropartita del nostro amore, della nostra passione e del nostro lavoro. Montagna vuol dire che c’è qualcosa che non si può gestire fino in fondo.
Lei è un professionista della montagna. Questa tragedia come la interroga, come guida e come uomo?
Ne parlavo fino a poco fa con alcuni colleghi. Non avevamo parole, d’altra parte non c’era e non c’è molto da dire. La cosa più difficile da accettare è che non si sia riusciti a trovarli, quegli alpinisti, e che non si sappia cosa sia realmente successo. E il non sapere con certezza assoluta se sono morti o ancora in fin di vita mi lascia addosso un’angoscia enorme, la stessa che avrei se mio figlio fosse lassù.
Esclude del tutto l’ipotesi che possano essere sopravvissuti?
Le possibilità sono pari a zero, però non mancano precedenti incredibili. Per ritrovarli in vita però servirebbe un miracolo. Questo la montagna non può impedirlo.
(Federico Ferraù)