La recente ennesima provocazione del bioeticista austrialiano Peter Singer è quella della “pillola della moralità”. Come spesso accade quando si tratta di speculare sulla base di scoperte nell’ambito delle neuroscienze, occorre tenere distinti i dati scientifici dalle interpretazioni sia filosofiche sia mediatiche, spesso ispirate, come ha detto Massimo Piattelli Palmarini, da una sorta di neuromania.



Recenti esperimenti scientifici sui ratti, condotti dall’equipe di Jean Decety dell’Università di Chicago, ci dicono che, di fronte alla scelta se consumare solitariamente un pezzo di cioccolato o liberare un simile per poi mangiare assieme il gustoso bottino, la maggior parte dei roditori opta per la seconda possibilità. Anche tra i ratti quindi esisterebbe qualcosa come l’empatia, la capacità di soffrire insieme a chi soffre. I neuroscienziati riconducono questa capacità a ciò che appare alla luce della Pet o di altre sofisticate forme di risonanza magnetica tanto negli umani quanto nei ratti in corrispondenza dei vissuti empatici, allorquando si vedono attivare certi circuiti neuronali comuni a entrambe le specie.



Qui finisce la scienza e comincia il sogno (o l’incubo) di Singer. Basterebbe allora fornire agli umani quegli ormoni capaci di attivare i suddetti circuiti per renderli “più buoni”?

Qualche riflessione si impone. Innanzitutto non è detto che la bontà sia direttamente proporzionale all’altruismo: la storia contemporanea è piena di esempi di individui che hanno commesso stragi di proporzioni inaudite in nome dell’“umanità”. In secondo luogo l’analogia tra umani e ratti regge solo sino a un certo punto. È vero che l’empatia è un fattore fondamentale dell’esperienza morale umana. Ma essa è incastonata in una dinamica conoscitiva complessa, fatta non solo di emozioni ma anche e soprattutto di immaginazione e pensiero che si fa fatica a postulare anche nei ratti. L’empatia umana ha sicuramente basi neuro-fisiologiche, come si può evincere a partire dai casi di individui che hanno subito traumi gravi a livello celebrale. Ma negli individui sani essa dipende molto dall’educazione e dagli stili di pensiero che caratterizzano ogni uomo. I genocidi che hanno oscurato il secolo scorso, ad esempio, sono stati commessi grazie alla partecipazione più o meno attiva di uomini e donne “normali” – non a caso di parla giustamente in questi casi di “banalità del male”. 



Sul loro modo di percepire e di pensare la realtà hanno esercitato un effetto decisivo le ideologie di stampo razzista o classista al punto da renderli incapace di forme significative di empatia ed altruismo. Ci sono studi interessanti nel campo della psicologia sociale (ad esempio quelli realizzati da Marcella Ravenna nel caso della Shoah) che dimostrano come le dinamiche di “categorizzazione” ideologica, basate sulla diffusione attraverso la propaganda di stereotipi negativi, hanno reso costoro incapaci persino di percepire le vittime come esseri umani simili a loro, con il conseguente abbassamento della soglia di inibizione morale.

Invece di continuare a sognare sistemi talmente perfetti dove nessuno avrebbe più bisogno di essere buono (T.S. Eliot) grazie a “pillole della moralità”, sarebbe più opportuno spendere le risorse economiche e le energie intellettuali nell’ambito dell’antica opera educativa e culturale, l’unico modo che conosciamo per far percepire agli esseri umani il volto umano che c’è in ognuno di loro e in ognuno dei loro simili.