Ricordo con molto dolore e insieme con molto affetto Matteo Mastromauro, uno dei più grandi amici che la Provvidenza mi abbia donato in questa vita lunga e piena di tanti incontri e di tante sollecitazioni.
Matteo Mastromauro è stato mio allievo all’Università Cattolica, nei corsi di Introduzione alla teologia. Fedelissimo, a differenza di tanti suoi compagni, desideroso di apprendere, di conoscere, soprattutto caratterizzato da una straordinaria bontà e capacità di apertura nei confronti delle persone e delle situazioni. Un’apertura che, a volte, rischiava perfino di essere eccessivamente ingenua. Matteo Mastromauro capì che l’esperienza della comunità cristiana e del Movimento, che facevamo, in un clima certamente pieno di positività e sanamente esaltante, nell’università avrebbe dovuto diventare poi forma della cultura, dell’impegno sociale. E quindi fu di quelli che affrontarono il problema del passaggio al mondo adulto non con la tentazione di reiterare forme e modi dell’esperienza universitaria, ma gettandosi nel pelago vasto e nuovo della vita sociale.
La scelta delle comunicazioni sociali, la scelta del mezzo televisivo rispondeva certamente a una particolare capacità comunicativa. Così come indubbiamente aveva una capacità di percezione dei problemi sociali e politici molto netta e approfondita. Senza sbandierarlo, era veramente una presenza cristiana in grado di esprimere anche nelle circostanze normali un giudizio diverso e una benevolenza verso se stesso e verso gli altri.
Io non ho potuto seguirlo nella fase della sua malattia, perché ero già qui, vescovo a San Marino-Montefeltro. Ho avuto con lui varie telefonate, e come è accaduto per la gravissima leucemia che poi ha fatto morire in due anni mio nipote, ho condiviso le sue speranze, le sue aspettative, e poi quelle ricadute che sono così dolorose da portare, anche dal punto di vista psicologico. Nella mia vita rimane, nella normalità della sua esistenza, un testimone dell’ordinarietà dell’avvenimento di Cristo e della Chiesa. Veramente, quando ho saputo da sua moglie della morte di Matteo Matromauro, mi sono venute alla mente le parole di Giovanni Paolo II: “Era necessario che l’eroico diventasse quotidiano per fare diventare il quotidiano eroico”.
Al quotidiano dell’uomo appartiene la morte, ma la morte entra a fare parte in quel momento doloroso e dialettico di una positività infinita: l’eroismo della presenza di Cristo, con il quale certamente Matteo è già. E da lì io amo pensarlo come una presenza che in modo diverso, ma non meno reale di prima, cerchi di condividere la mia vita come la condivise in questo lungo periodo della nostra amicizia.