Uno dei privilegi dei soci di Papillon, che in più di mille, sabato e domenica si apprestano a fare una cena in contemporanea in settanta località per la pizzeria San Rafael di padre Aldo Trento, è la Circolare, ovvero un diario circoscritto della vita e degli incontri di uno che fa di mestiere il critico enogastronomico. E dopo 20 anni questo lungo diario è diventato una raccolta di episodi, di persone incontrate, di pensieri.
Ogni tanto lo riguardo e proprio in questi giorni m’è venuta in mano la raccolta del 2005. Dov’ero in questi giorni? Ero a Montalcino, per assaggiare, come farò la settimana prossima, i 120 Brunello dell’annata. E appena finita la degustazione mi raggiunse la telefonata di un’amica: “Don Giuss si è aggravato…”. Erano le 17 di un pomeriggio plumbeo nella campagna senese e subito, insieme a Roberto, mi misi a cercare una chiesa per prendere una messa, ma in quella campagna non ci fu nulla da fare. Alle 18, decidemmo che l’unica strada era cercare un’Abbazia e ci dirigemmo in Val d’Orcia, all’Abbadia San Salvatore.
Quando arrivammo, erano le 18:30, il portone era già chiuso. Suonammo, ci venne ad aprire un monaco e subito gli dicemmo il motivo della nostra visita: “Don Giussani sta molto male, vorremmo pregare per lui”. Il monaco ci guardò come se gli fosse capitata la cosa più strana del mondo, ci aprì una stanza del monastero dove c’era un crocifisso e ci lasciò li a dire il nostro rosario. Quando uscimmo, ci salutò frettolosamente, pensando in cuor suo – almeno sembrava – che fossimo gente ben strana, senza capire che come minimo quel giorno dovevamo pregare in luogo sacro e possibilmente bello.
La sera del suo funerale – ricordo – ci trovammo a casa mia, con una decina di amici che erano venuti da lontano per partecipare alla convention nazionale dei Delegati di Papillon. E per ricordare il don Gius aprimmo la bottiglia di Bricco dell’Uccellone del 1982, che avevo messo via per lui, per quando sarebbe tornato a casa mia… come recita anche una struggente canzone di Claudio Chieffo che a sorpresa un’estate mi volle dedicare. Quel Bricco così longevo era una scommessa: aveva 23 anni. Lo assaggiammo in silenzio, e non ci sembrava vero che fosse così perfetto, così generoso di racconti, tanto da lasciare una nostalgia dopo l’ultima goccia.
Il giorno dopo a San Giorgio Monferrato, ospiti della casa di Piero Portalupi guardammo il film Il pranzo di Babette, e lì capii che don Giusssani era stato per me e per noi quel generale che si stupiva, coglieva il valore dentro le cose di tutti i giorni e ci introduceva a guardarle. Avete presente quella sequenza a tavola, quando Babette porta i suoi piatti abbinati ai vini fatti arrivare dalla Francia? Lì il generale coglie il segno di cosa sia il gusto, e d’un tratto quello che sembrava un semplice convivio diventa esperienza per tutti, fino al canto.
Don Giussani era povero, nel senso di una virtù che abbraccia l’essenziale, e quando qualcuno gli faceva un dono, in particolare un vino, lui spalancava gli occhi come un bambino: “Barolo?”. Era il suo preferito, con inclinazione per quelli più tradizionali, ma da par sua amava anche una Malvasia piacentina, frizzante e molto secca, che produceva Migliorini, barolista di vaglia, legato ai colli piacentini. Insomma, amava i gusti schietti, riconoscibili, leganti fra la terra e l’uomo.
A inizio gennaio di quest’anno, una sera – lo racconto nell’ultima Circolare che è stata spedita ieri – mi sono trovato con una mia amica di Todi, Almerina, all’Abbazia di Staffarda, tra Pinerolo e Saluzzo. Una maestosa costruzione medievale, bellissima, corredata, oggi, anche da un ristorante, Il Sigillo, dove abbiamo mangiato uno stinco di maiale niente male. E quella sera Almerina mi ha raccontato un episodio che le stava particolarmente a cuore.
Ossia di quella volta che il don Gius andò a casa sua e lei, per fargli onore, si procurò un Barolo del 1974. Quando il Gius vide la bottiglia spalancò gli occhi con sorpresa, si versò il vino e non ne bevve per tutta la sera. Ogni tanto lo annusava, lo guardava, mentre parlava. E tutti si chiedevano perché mai non bevesse quel vino, quasi con un senso di colpa per aver sbagliato a scegliere. Dopo i primi bocconi del secondo, ma quasi alla fine, ne bevve un sorso e interrompendo ciò che stava argomentando disse: “Noi crediamo in questo”. E alzò il calice di vino.
Un vino come un’espressione del Divino, del bello che abita questo mondo. Questo deve aver pensato don Giussani in quel momento, commosso come di fronte a un quadro. Ma la cosa che più m’ha colpito del racconto di Almerina, è stato il suo atteggiamento: ha voluto che il Barolo si ossigenasse per bene, poi l’ha desiderato ascoltandone l’evoluzione dei profumi e infine lo ha assaggiato, con estremo rispetto.
Davanti alla mia scrivania, mentre scrivo queste parole, ho una foto del don Gius che mi è molto cara: mentre fuma un antico toscano e guarda stupito chi ha di fronte a sé, proteso ad ascoltarlo. Come di fronte a quel Barolo del 1974. Quante cose ci ha insegnato quell’uomo e quanta tenerezza provai il giorno in cui venne a casa mia, nel maggio del 1985 e si stupì del Barolo chinato, servito come aperitivo. All’Abbazia di Staffarda, quella sera, si capiva che c’era fra noi quella nostalgia di un incontro, che tuttavia non è come una cosa del passato, ma una strada che si può percorrere giorno per giorno.
Questa foto invece è una chicca: don Giussani che ride a crepapelle con Angelo Zola, il re dei barman. Una foto rara, scattata dopo la celebrazione del matrimonio del figlio Peppino con Adriana Mascagni. Quanti ricordi bellissimi ci ha lasciato il don Gius, ma soprattutto quanta “febbre di vita” – come fu detto al suo funerale – ha trasmesso a intere generazioni scuotendole dal torpore di una vita senza sorpresa. A lui, per sorprendersi di un Altro, sarebbe bastato un vino.