Il passare del tempo non ha mai smentito ciò che Luigi Giussani, in modo profetico, disse nel lontano 1975, dopo una udienza dei movimenti ecclesiali con Paolo VI: «Man mano che maturiamo, siamo a noi stessi spettacolo e, Dio lo voglia, anche agli altri. Spettacolo, cioè, di limite e di tradimento, e perciò di umiliazione, e nello stesso tempo di sicurezza inesauribile nella Grazia che ci viene Donata e rinnovata ogni mattino». Una sicurezza, quella di Giussani, che ha profondamente affascinato anche chi credente non lo è, e non ne fa mistero. È il caso di Pigi Battista, editorialista del Corriere, che nel 1996 conobbe don Giussani in occasione di un servizio che La Stampa – allora Battista era al quotidiano di Torino – gli aveva chiesto sul prete fondatore di Cl. «Lo conobbi in aeroporto. In un posto pieno di passeggeri» scherza Battista «rimasi colpito dalla sua capacità di andare all’essenziale, al non-passeggero».
«Ha capito che il cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo» ebbe a dire di lui il cardinale Ratzinger nell’omelia funebre «ma un incontro, una storia di amore, è un avvenimento». È questo l’«essenziale» di Giussani?
Direi di sì. Devo fare però una premessa fondamentale. Non sono credente e quello che dico lo posso dire solo sulla base della mia esperienza umana e culturale, non sul piano della fede. Ecco, quello che mi colpì, della capacità di Giussani di andare all’essenziale, è che non aveva nulla di «maniacale». Non faceva parte di quelli che riducono tutto a uno, al contrario era attentissimo alla molteplicità della storia. Al centro di quella diversità irriducibile, però, coglieva e metteva l’avvenimento: la manifestazione umana della divinità, se così posso dire.
Cambiò il suo modo di vedere il cristianesimo?
Compresi che il cristianesimo poteva essere tante cose – carità, per esempio – ma che esse non avrebbero avuto senso se non si fossero ancorate a quel dato che a Giussani così premeva, la presenza di Gesù Cristo nella storia. Da non cristiano, posso senz’altro dire che questo rilievo, nel quadro complessivo della realtà e nella gerarchia degli interessi che sono investiti dal cristianesimo, ha un valore rivoluzionario.
Si chiese che cosa ci fosse in Giussani da calamitare così tanti giovani?
La mia impressione fu quella di un modo umanissimo, per nulla predicatorio, ieratico, di creare quella centralità.
Quell’intervista uscì con il titolo di «Preghiamo per l’Italia in pericolo» e venne anche in seguito molto letta perché Giussani toccò il tema dei cattolici, della politica, di una nazione in crisi.
Anch’io rimasi colpito. Nel ’96 l’Italia della politica era sotto choc perché eravamo ancora abituati ad avere come perno dell’assetto politico la Dc, ma il partito cattolico non c’era più. Mi colpì la serenità con cui disse che no, il problema non è che ci siano cattolici al governo, perché poteva benissimo essere che il partito che si dice cristiano facesse cose che con il cristianesimo non hanno niente a che vedere. Non c’è una corrispondenza necessaria. Alla luce di tutto quello che era accaduto, fu sorprendente come il legame con un partito non fosse per lui il problema. È una mia illazione – perché non c’è niente di peggio che attribuire un pensiero ad una persona che non può avvalorarlo – ma credo, sulla base di quello che mi disse allora, tutto centrato sull’«essenziale», appunto, che anche oggi non penserebbe ad un’aggregazione di cattolici come al problema prioritario della politica.
Forse la sua preoccupazione era un’altra: sempre in quell’intervista definì l’educazione «l’attività più appassionatamente umana che si possa concepire».
Certo. A patto di togliere all’espressione ogni valenza moralistica. In Giussani la critica della riduzione del cristianesimo a moralismo era fortissima. Non che naturalmente fosse estraneo a ogni tipo di eticità o moralità… (Battista sorride, ndr).
Disse che la situazione era grave «per lo smarrimento totale di un punto di riferimento naturale oggettivo per la coscienza del popolo». È ancora attuale questo giudizio?
Farò un’illazione forse più grave di prima, ma penso che oggi lo sottoscriverebbe in pieno, vedendo in questi 15 anni una conferma di quello che aveva detto nel ’96. Non vedo, purtroppo, nessun ancoraggio alla deriva della politica italiana, una politica che ha abdicato al suo ruolo, che è vista dai più come attività superflua, e che si è affidata ai tecnici come a salvatori dal disastro. È la presa d’atto di una bancarotta. I partiti non possono non pensare che tutto questo non avrà conseguenze molto pesanti sul loro rapporto con i cittadini.
Chi è oggi don Giussani?
Un grande educatore. La sua lucidità non è riducibile soltanto a quello che ha fatto o detto dopo di lui chi lo ha seguito, nel bene o nel male. Ognuno è responsabile per sé, e credo che Giussani non avrebbe nulla in contrario a questo rilievo. Lui ha creato un’esperienza, dopo di lui ci possono essere stati errori, ma questo fa parte della storia; non esiste la società perfetta, così come non ci sono uomini perfetti.