Si chiamava Dayana. Un nome che fa venire in mente un motivo antico, una canzone che ormai conoscono solo più le nonne, e sa di festa, di giovinezza, di vacanze belle e sognate. Paul Anka, ricorderete vagamente. Si chiamava Dayana la piccola di Rimini che è stata inghiottita dalla nave Concordia, il 13 gennaio. Sua mamma avrà pensato a un nome tanto americano; da diva, sì, ma ormai familiare, di casa, grazie a quella canzone. Dayana che entra all’asilo, e sembra di entrare in un film di Fellini. Dayana con la piadina, Dayana che saluta e parte per salire sulla nave grande, bianca, elegante, altro che il mare delle sue spiagge a file, dodicesima ombrellone 18.



La mamma l’aveva affidata al papà, raccomandandosi, perché anche queste navi da crociera sono grandi, e se ti perdi a Rimini c’è sempre un bar, un bagnino che fa risuonare il tuo nome agli altoparlanti, ma una nave… tranquilla, le ha detto l’uomo, su una nave è ancora più sicuro, e non la lascerò mai un attimo. Infatti non l’ha lasciata, il papà, ed è morto con lei. Ligio a tutte le becere indicazioni dello sbandato personale di bordo, il giubbotto salvagente, e poi tutti sul ponte dove ci si raduna,  seguite quello che vi hanno detto nella prova, quella appena fatta, no problem.



Vogliamo credere che l’onda di piena sia arrivata in un secondo, che non la aspettassero, mentre lui le accarezzava i capelli e le faceva vedere, ridendo, com’era diventata sbilenca la nave, sembrava uno scivolo. Non possiamo pensare che poco a poco l’acqua sia salita, e con essa la disperazione. Sarà stato invece come un tuffo improvviso, e una boccata sola, una sola è bastata per separare quelle mani che si stringevano forte. Ma quella madre. Un mese e nove giorni. Un mese e nove giorni a sperare che la trovassero viva, poi malconcia, ma viva, poi che almeno potesse abbracciare un corpo, ma il suo corpo; guardare il suo viso e poterlo riconoscere. Un mese e nove giorni dopo, è davvero troppo. Non fategliela vedere, non fatele neanche immaginare l’orrore di quel corpicino martoriato, di quei resti miseri in balia di un mare assassino.



E’ già stato crudele non poterla accomodare per bene, così, come su un lettino, come poté fare la madre di Cecilia del Manzoni con la sua piccina portata via dalla peste, scostandole una ciocca di capelli dal viso. Non fategliela vedere. Rammenti, quella povera madre, che oggi è il primo giorno di Quaresima. Lei ha dato tutto. Qualcuno le sussurrerà di non piangere, che si riabbracceranno un giorno, e che tutto quel male non è assurdo e insensato.

Dobbiamo credere questo, o resta solo l’orrore e la rabbia. Due note soltanto. Primo: troppo stupide le battute sul comandante di quella balena mostruosa di ferro, ignoranti e offensive le carnevalate con i costumi alla Schettino, alla sua amante moldava. Un mese e nove giorni, a troppi di noi, sono bastati per dimenticare che ci sono stati dei morti, troppi morti. Vengono prima di ogni sarcasmo e prima anche del pericoloso inquinamento ambientale, vogliamo farlo ben presente. E, secondo: senza caccia agli untori, senza scaricabarile tra chi è potente chi no, sia resa giustizia.