A quanti di noi è capitato di entrare in un locale per ascoltare musica o per rifocillarci e ci è stato chiesto di sottoscrivere la tessera ad un fantomatico club o associazione culturale? È il modo più diffuso per mascherare un’attività lucrativa con un’iniziativa culturale o sociale che evidentemente riceve norme fiscali di favore. L’esempio cerca di far capire che la distinzione, oggi tanto in voga, tra attività commerciali e non commerciali è mal posta, perché a ben vedere passa tra attività a fini di profitto e attività no profit.
In Italia, in particolare, le leggi distinguono tra attività a fini di lucro (quando cioè si esercita abitualmente un’attività commerciale) e attività non lucrativa (quando si tratta di un atto una tantum, come la vendita di una casa da parte di un comune cittadino). Esiste invece un buco che proprio il tema dell’esenzione Ici agli immobili non commerciali ha definitivamente scoperchiato, e che riguarda quelle attività commerciali (dunque continuative e abituali) che tuttavia non hanno finalità di profitto, in quanto destinate ad assolvere una missione di alto valore sociale. Si pensi all’educazione scolastica, che la legge stessa impone che anche nel caso dei privati debba svolgersi seguendo il sistema pubblico, tipicamente no profit. Si pensi ad una mensa che chiede un contributo minimo evidentemente fuori mercato. Non certo l’albergo o il ristorante che dietro lo schermo associazionistico o sociale offre il servizio a prezzi di mercato e con il chiaro fine di lucrare.
Mercato, appunto. È questa la parola che il giurista Cesare Vivante utilizzò per convincere il legislatore ad unificare nel diritto privato i due grandi settori del diritto civile e del diritto commerciale che erano separati sino al codice attuale del 1942, che invece li ha unificati. E se dopo questa unificazione, fino ad oggi non si era sentita la necessità di operare distinguo tra atti di commercio “profit” e atti di commercio “no profit”, ciò era dovuto proprio al meccanismo delle esenzioni, che con norma di diritto pubblico, dunque sovraordinata al codice civile, tirava fuori dal diritto privato alcune situazioni quali appunto quelle relative alle attività di enti non commerciali, purché tali attività fossero appunto prevalentemente non commerciali.
Con la novità introdotta ieri dal Governo Monti di voler catalogare anche questa materia dentro il Mercato (e infatti il tema dell’esenzione Ici viene inserito nel Dl liberalizzazioni, dunque mercato, concorrenza) riemerge con decisione il tema delle regole per gli enti no profit. Sarebbe, infatti, a dir poco ingiusto ritenere che alcune attività commerciali no profit (come quelle delle scuole o delle mense ricordate) possano essere del tutto parificate a fini fiscali alle attività decisamente lucrative di enti non commerciali o addirittura di improbabili associazioni ludico-culturali.
Occorre in altri termini riprendere con vigore il tema della riforma del nostro codice civile in ordine all’inserimento di uno statuto ad hoc per gli enti autenticamente no profit, sui quali in particolare Stefano Zamagni si batte da una vita. Altrimenti si rischia, con l’ambiguità di una norma che si limita ad operare distinzioni sul mero requisito della commercialità, di buttare via l’acqua sporca con dentro il bambino. Ma questo governo tecnico, proprio per la sua competenza anche giuridica, ha tutte le carte in regola per arrivare a quella riforma del codice civile che finalmente introduca tra l’impresa e gli enti non commerciali anche una regolamentazione specifica delle attività degli enti autenticamente no profit.