L’emendamento del Governo sull’Imu, presentato ieri, è stato salutato da più parti con favore. Ad esempio, dalla dichiarazione del sen. Stefano Ceccanti, inviata per mail, traspare grande soddisfazione. L’emendamento sarebbe infatti “chiaro e risolutivo”. La questione sembra dunque definitivamente risolta, tanto che tutti gli emendamenti presentati dal Parlamento sono stati ritirati, anche a motivo delle dichiarazioni del presidente del Consiglio il quale si è presentato in aula a illustrare senso e contenuti dell’emendamento con il rigore che gli è proprio.



Per ragionare sul tema, può essere utile dare uno sguardo al testo, quel testo per cui – forse giustamente – si dice che non vi era alcuna ragionevole alternativa.

Va detto in primo luogo che il nuovo regime fiscale riguarderà non solo le scuole non statali ma gli enti che esercitano attività “assistenziali, previdenziali, sanitarie… ricettive, culturali, ricreative e sportive”; riguardo a tutte queste attività, gli enti che le esercitano potranno usufruire dell’esenzione solo se i relativi immobili siano destinati esclusivamente allo svolgimento, con modalità non commerciali, delle attività sopra citate. Tali modalità dovrebbero essere quelle usuali, cui si aggiungono – per le scuole – quelle enfatizzate dal presidente del Consiglio nel suo speech in Parlamento (i.e. esercitare l’attività scolastica privata alle stesse condizioni che vigono per le scuole pubbliche, compresi i tipi di contratti che vengono applicati ai dipendenti e l’accoglienza di alunni disabili che pure, nelle scuole secondarie, non è sempre corredata dai relativi finanziamenti).



Fin qui, gli spazi di interpretazione della norma paiono essere abbastanza limitati, benchè ogni giurista conosca la fallacia del noto brocardo in claris non fit interpretatio. E, invero, le norme non sono mai così dirette come sembrano; in particolare si pone il problema di unità immobiliari che abbiano una utilizzazione mista, cioè in parte commerciale e in parte non commerciale. Per queste sono previsti due casi. Il primo riguarda il caso in cui sia identificabile la parte adibita all’attività non commerciale dall’altra, quella in cui l’ente esercita attività commerciale; nessuno di noi è un commercialista ma a nessuno sfugge che tale “divisione” potrà essere fonte di non poche problematicità, anche perché la norma precisa che la parte dell’immobile che dovrà pagare l’imposta deve essere “dotata di autonomia funzionale e reddittuale permanente”. Per definire tale caratteristica soccorre la norma dell’art. 2 della legge 286/2006, che regolamenta l’accatastamento degli immobili. Inutile provare ad entrare in merito: si tratta di questioni da specialisti. 



Vi è poi un altro caso, quello in cui le parti dell’immobile non siano distinguibili. In tal caso, a partire dall’1 gennaio 2013, l’esenzione si applica in proporzione all’utilizzazione non commerciale dell’immobile quale risulta da apposita dichiarazione. Per chiarire le modalità e le procedure relative a tale dichiarazione e gli elementi rilevanti ai fini dell’individuazione del rapporto proporzionale verrà emanato un regolamento attuativo da parte del ministro dell’Economia e delle Finanze entro 60 giorni dalla conversione in legge del decreto legge. Qui il ministro detiene una buona porzione di discrezionalità, visto che tale regolamento non va condiviso dal Consiglio dei Ministri ma basta che sia “comunicato” al presidente del Consiglio stesso.

Segue l’abrogazione della disciplina vigente, quella in base alla quale l’esenzione dall’Ici che viene ora modificata era applicabile agli enti che esercitavano le attività suddette “a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse”; tale disciplina aveva – come noto – avviato una procedura di infrazione in sede europea come contraria alle norme sulla concorrenza. Con questo provvedimento il caso “europeo” si chiude ma, forse, altri problemi si aprono in casa nostra, soprattutto se l’applicazione della norma non sarà altrettanto chiara e trasparente come molti prefigurano che sia.

 

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