A ventisei anni si dovrebbe essere un padre tenero che guarda con ammirazione al proprio figlio, cosciente di avere entrambi ancora una lunga strada da percorrere insieme. A ventisei anni si può scalpitare perché appena smesso di gattonare il piccolo riesca a dare un calcio al pallone e così giocare a fare goal nel corridoio di casa. Ma a ventisei anni si può anche spezzare quel percorso che appare così naturale, si può mettere uno stop inesorabile capace di imporre una fine prematura. È accaduto a Roma dove, per quanto ne sappiamo, un giovane sposo al termine di una lite furibonda con la moglie, è uscito di casa con in braccio il suo piccolo e lo ha gettato nelle acque ghiacciate del Tevere. Il corpicino non è stato ritrovato, ma non sembrano esserci speranze sulla sua sorte.



Come è possibile?, ci chiediamo, prede anche di quel tipo di sgomento che annichilisce, che si rifiuta quasi di credere a una cronaca che sembra solo una brutta fiction partorita da un autore a corto di idee.

Noi non sappiamo nulla di questo giovane uomo, tranne ciò che ha compiuto dentro l’alba livida di una giornata qualsiasi in un inverno che adesso sembra ancora più freddo. Di lui non sapevamo neanche l’esistenza, e nemmeno della situazione che viveva in casa con la propria moglie.



Di lui sappiamo solo che  ha confessato alla polizia: “l’ho gettato io nel Tevere”.  E non sappiamo neanche il tono con cui abbia pronunciato quella frase tremenda. 

Ma cosa ha gettato, realmente, ai suoi occhi? Ecco, cosa, non chi.

Io credo non abbia gettato nessuno, perché quel bambino nel ponte sopra il Tevere poco prima delle sette di mattina non c’era. Non era (più) la promessa viva di un futuro, non era nemmeno un presente ancora dipendente sì, ma già competente nel riconoscere ciò che gli piaceva e dispiaceva, capace di prepararsi le parole giuste con cui raccontarsi al mondo. Era un niente, un mucchio di stracci, un fagotto di qualche chilo. Forse l’oggetto adatto per agire una vendetta ritenuta necessaria, l’occasione per far pagare un torto subito, lo spunto per lacerare un’anima che avrebbe sofferto più che per la stessa morte.



Accade. Quando l’altro è fatto fuori nel pensiero, a volte poi viene fatto fuori nella carne.  

Non sappiamo nulla del padre ventiseienne, non sappiamo nemmeno se fosse matto. Sappiamo però che non c’è bisogno di essere matti per compiere un gesto così atroce. È una notizia che non ci piace questa, perché la follia ci tranquillizzerebbe almeno un pochino, ci permetterebbe di confinare il gesto in un recinto dove malato coincide con non imputabile. Ci piacerebbe magari che l’uomo fosse stato sotto il potere dell’alcol o della droga, perché lo sottrarrebbe al potere dei sui pensieri. Ma può darsi che così non fosse.

Al giovane padre e al suo piccolo figlio possiamo adesso solo augurare la pace. Quella certa, ma anche quella che appare impossibile. Al bimbo, auguriamo la pace che è assicurata dal buon Dio alle vittime innocenti. All’uomo, invece, quella che può derivare solo da un necessario, ma non scontato, lavoro personale per acquisire un inedito pensiero del rapporto; quel pensiero secondo cui  la soddisfazione passa solo dal rapporto con un altro e il bene è possibile solo in quanto ricevibile. 

Ciò che il giovane padre scoprirà di doversi perdonare, non sarà solo il male compiuto sugli altri, ma anche quello compiuto su se stesso. Dovrà perdonarsi di essersi privato della gioia di veder crescere un figlio. Quel figlio che nel ponte sul Tevere c’era, ma non è stato riconosciuto come tale. Quel figlio che sullo stesso ponte negli anni a venire avrebbe potuto correre insieme a lui o su cui avrebbe potuto passeggiare mano nella mano con la ragazza che gli riempiva il cuore. Facendo ipotesi sul suo futuro, magari di padre.