Cosa ne facciamo del mostro? Lo hanno liberato. O meglio lo metteranno in un ospedale psichiatrico per cinque anni. Fa discutere la sorte dell’ucraino Oleg, che uccise a pugni una donna filippina, ora “assolto” da una giudice donna poiché folle e dunque non imputabile.

Cosa ne facciamo del “mostro”? L’omicidio compiuto impressionò tutti per brutalità, casualità, ignominia. La scelse a caso, la colpì, la finì a terra. Sfogando la sua tenebra sul volto di quella povera, dolcissima vittima. Nessuno può pretendere che siano i parenti della vittima a pronunciare parole di pietà. E non vale nemmeno la sociologia d’accatto che pretende di comprender tutto addossando le colpe agli stranieri. Straniera era anche lei, la disgraziatissima vittima, non solo il mostro. E dunque cosa ne facciamo? Lo chiudiamo a vita a marcire in un carcere? Lo meriterebbe. Ma appunto, lo meriterebbe chiunque fosse uscito di casa, avesse scelto una persona a caso e l’avesse uccisa con ferocia sul posto. Oleg ha fatto questo.



Sì, ma lui c’era? O cosa c’era di lui? Se lo teniamo in carcere non lo sapremo. Il mostro sarà sempre e solo il mostro. E noi avremo la coscienza a posto. Non volendone più sapere di lui. Non volendone sapere più nulla. Lui in fondo al nero carcere e noi tranquilli. Se invece proveremo – come la giudice ha visto – a non ridurre tutto Oleg a quel che ha compiuto, dovremmo ammettere che forse c’è qualcosa di lui che non era in viale Abruzzi quel maledetto giorno. La follia cosa è se non l’assenza di me da me? Un raptus cosa è se non la definitiva uscita di me da me stesso, a furia di spostarmi, di spingermi fuori con mille precedenti azioni, mille precedenti smottamenti e violenze?



Di questa infinita serie di smottamenti e violenze, il giovane pugile Oleg è di certo colpevole. E dovremo vederli. Dovremo lasciarci inquietare da quegli smottamenti. Che conosciamo bene. Perché li compiamo anche noi, molto probabilmente. Ma quelli non sono reati, non lo  erano neppure per Oleg. Il reato avvenne nel raptus. Quando lui c’era e non c’era già più. E allora ha ragione il giudice.

Non condanniamolo del tutto. In senso giuridico, è giusto. Piuttosto lavoriamo – in un ambiente psichiatrico che è pur sempre un carcere, non dimentichiamolo – perché emerga l’Oleg che là non c’era. Così da vedere anche la parte di noi in lui. E non rimanere tranquilli. Solo questa sarà la vera giustizia, la vera sanzione che pagheremo tutti – e non solo il mostro – alla povera vita di Emlou, la donna finita nel vortice della sua violenza. Il nome dolce, strano di questa donna filippina continuerà a significare qualcosa per tutti – e non solo per i suoi straziati, gementi figli e parenti – solo se non chiuderemo i conti. Solo se siamo disposti all’inquietudine, certi fatti possono rimanere impressi in noi. E non essere solo scialo di sangue, di dolore e di pena.



Seppellire i carnefici (e con loro anche le vittime) senza accettare di guardare noi in loro è sempre stato il modo migliore per restare identici. Non lasciare Oleg in un qualunque carcere significa non solo un supremo atto di umanità verso il mostro, ma pure accettare di vederlo anche in noi. Affidarlo a un carcere psichiatrico significa voler sapere di più di lui. E voler sapere di più di noi.