A tre anni dalla morte di Eluana Englaro, il disegno di legge sul fine vita (Dat, dichiarazioni anticipate di trattamento) giace in Parlamento, in attesa di tempi migliori. Per condurlo in porto servirebbe quel consenso bipartisan che la fine del berlusconismo e la crisi dello spread hanno concentrato sul sostegno al governo tecnico di Mario Monti. Lucetta Scaraffia, docente di storia contemporanea nell’Università “La sapienza” di Roma, editorialista de L’Osservatore romano, torna sulla vicenda che ha diviso l’Italia. Non crede in una legge sul fine vita: «ogni situazione è diversa da un’altra, dovrebbero decidere i medici responsabili e liberi con l’accordo del paziente o, se non può il paziente, della famiglia». Auspica – diversamente da quanto non si fece negli ultimi mesi di Eluana, «cadendo, noi cattolici, nella trappola dei radicali» – che ora si riprenda una discussione seria, sui limiti della tecnologia e sul senso del morire.
Lucetta Scaraffia, cosa ci ha lasciato la morte di Eluana Englaro?
È stato uno dei momenti più tristi e più bassi della vita civile del nostro Paese. Quanta disinformazione, quante polemiche. Avremmo dovuto salvare la vita di Eluana, certo; ma anche affrontare i problemi che il suo caso ci metteva di fronte. Cioè la necessità di definire con regole più chiare il tempo massimo entro il quale operare la rianimazione di persone nelle sue condizioni. Perché Eluana era ridotta così a causa di un eccesso di tecnologia medica.
Cosa intende dire?
Che nella battaglia polemica di quei mesi il «perché» della situazione di Eluana non venne mai affrontato. Si parlò solo di cosa fare della ragazza. A quel punto, certo, una cosa restava da fare, amarla e accudirla finché era in vita. Ma il vero problema era, ed è tuttora, quello dell’uso esagerato delle tecnologie mediche allo scopo di tenere in vita le persone.
Allora le faccio io la domanda: perché Eluana era in quello stato?
Eluana è rimasta per anni immobile, alimentata con un sondino nasogastrico, non per una malattia ma per un intervento sanitario tecnologico. Mi chiedo: fino a che punto è giusto fare una rianimazione tardiva? Non dovremmo avere dei limiti? Il motivo per cui si fanno rianimazioni tardive è che i medici hanno paura di essere citati in giudizio: fanno di tutto anche sapendo che il risultato potrebbe essere quello che fu per Eluana Englaro. Sono indotti a questo dal timore di azioni legali. Anche gli ospedali, finanziariamente stremati dal pagamento dei patteggiamenti delle cause, suggeriscono una condotta difensiva. Fate tutto quel che potete, dicono ai medici, perché non ci siano cause.
Con Eluana non fecero tutto ciò che era in loro dovere per salvare una vita?
Sì, ma lei sa che c’è un tempo oltre il quale, se il cervello non viene irrorato, perde quasi tutte le sue potenzialità. Nel caso di Eluana questo tempo è stato molto, troppo lungo. I medici non contemplarono il rischio di danni irreparabili e intervennero ugualmente. Certe decisioni così importanti possono essere prese solo da medici pienamente liberi e responsabili. Intendo dire: non sottoposti a pressioni di altra natura, come quelle legali.
I fautori della morte puntarono tutto sull’autodeterminazione: Eluana non avrebbe mai voluto vedersi in quello stato, in passato lo aveva detto.
Il caso dell’autodeterminazione era falso e mal posto, perché Eluana non formulò mai un «testamento biologico» sia pure ante litteram. Disse semplicemente quello che avrebbe detto ciascuno di noi in presenza di una persona in coma profondo. Anch’io direi «io non vorrei mai vivere così», ma ciò non vuol dire che vorrei essere ammazzata qualora fossi in quelle condizioni. Parlare di autodeterminazione fu una mostruosa falsità. C’era la «determinazione» del padre, ma quella era un’altra cosa.
Cosa rimane del caso della povera Eluana?
L’amarezza di essere caduti, noi cattolici, in una trappola mediatica voluta e gestita dai radicali. Sono stati loro ad imporre l’agenda, a radicalizzare lo scontro, ad assegnare le «parti». Noi cattolici avremmo dovuto dire: salviamo Eluana, ma al tempo stesso riconosciamo che c’è un problema. Chiediamoci perché Eluana è in quello stato. Parliamo dell’uso esagerato della tecnologia medica e del suo potere, oltre che far di tutto per salvare la vita della ragazza.
Ma cosa avrebbe dovuto fare la Chiesa secondo lei?
I radicali ne fecero una battaglia ideologica, a partire dalla sentenza, per ottenere l’eutanasia. La Chiesa cadde nella trappola quando cominciò a fare, in quel preciso contesto, una battaglia contro l’eutanasia invece di affrontare il problema nella sua complessità, certo opponendosi all’eutanasia. Sui media è stata una battaglia persa, quasi senza possibilità di parola. Credo che la Chiesa avrebbe dovuto affrontare il caso concreto con meno emotività, e maggiore attenzione ai media, a quelli non cattolici.
In che modo quella tragedia ha toccato la sua vita di credente e di studiosa?
Come credente, è stato atroce. Quella povera ragazza è stata trattata come un agnello sacrificale e questo mi ha recato un dolore immenso, come donna e come madre. Come studiosa, come persona che opera nei media, mi sono detta: dobbiamo, come cattolici, trovare una linea migliore. Vedevo che la Chiesa non riusciva a farsi ascoltare nemmeno dalle persone considerate più cattoliche. Troppa confusione.
Confusione su che cosa, esattamente?
Sul «caso limite» di Eluana: ricordo di aver avuto l’impressione che molta, moltissima gente non sapesse in fondo cosa pensare. La faccenda in sé era molto complicata, ma nessuno la spiegava bene. Ad esempio per un po’ girò lo slogan: staccate quella macchina – ma la povera Eluana non era collegata a nessuna macchina. E ancora, poco si è detto sui pericoli dell’accanimento terapeutico, perché era questa, in fondo, la grande questione che Eluana poneva a tutti noi. Sui limiti della tecnica. E sul senso della morte. Possiamo rinunciare al valore della morte? Per un credente la morte è l’incontro con Dio. Non c’è il rischio di farsi condizionare dal vitalismo dominante, dimenticando che la fede cristiana ha operato il più grande cambiamento di segno della morte?
E adesso? C’è una legge sul fine vita che giace in Senato.
È una legge che non mi convince. È praticamente impossibile legiferare su questa materia: di fatto, la responsabilità rimane ai medici, che possono informare in modi anche molto diversi il paziente e i suoi famigliari. Bisogna quindi puntare alla crescita morale della figura del medico, della sua responsabilità, liberandolo dai pericoli della pressione dei ricorsi, almeno in parte. È solo la libertà che permette l’assunzione vera di responsabilità.
Che cosa si dovrebbe fare?
Aprire, anche in campo cattolico, una discussione seria. Io sono contrarissima all’eutanasia, ma penso che come cattolici dovremmo avere il coraggio e la capacità di elaborare un discorso più ampio, di affrontare tutti i problemi e le possibilità legate all’uso delle tecnologia alla fine della vita. Ricordandoci di non passare anche noi, inavvertitamente, dalla parte dei vitalisti ossessivi, di quelli che aborrono la morte. Mentre penso che, sull’inizio vita, la bioetica cattolica sia chiarissima e indiscutibile, sulla morte ci sarebbe ancora molto da discutere e da chiarire. Ancora non l’abbiamo fatto.
(Federico Ferraù)