«Si tratta dell’annuncio di un provvedimento che consente alla donna di aggiungere il proprio cognome ai figli e poi, in particolare, alle donne divorziate con figli, di attribuire a questi ultimi il cognome del nuovo marito». Alberto Gambino, filosofo del diritto e professore ordinario di diritto privato e di diritto civile nell’Università Europea di Roma, commenta la singolare proposta del Governo inserita nel pacchetto semplificazioni, riguardante i nomi delle persone. «Mentre nel primo caso l’aggiunta del cognome materno, aldilà della complicazione lessicale, è comunque in linea con il diritto naturale della procreazione, essendo un figlio generato, come ovvio, da un uomo e da una donna, nel secondo caso dell’attribuzione del cognome del nuovo coniuge anche ai figli di primo letto, la vicenda è molto più problematica…»



Perché?
Vede, codice civile alla mano, l’ordinamento italiano stabilisce che ogni persona abbia diritto al nome (che giuridicamente significa cognome) che le è per legge attribuito. Si tratta di un tratto identitario della persona. Tratto identificativo fortissimo, tant’è che anche la Carta costituzionale – memore delle persecuzioni e vessazioni pubbliche del passato – ha sancito all’art. 22 che nessuno può essere privato, oltreché della cittadinanza , anche del nome. Si tratta in altri termini – come si usa dire tra i civilisti – di un diritto assoluto, immune da qualunque pretesa di altri soggetti. Ora la “pretesa”, adombrata dal provvedimento del governo Monti, sembra quella di assegnare alla madre risposata il potere discrezionale di imporre ai figli il cognome del suo nuovo partner, così da incidere sul percorso storico, sul vissuto e sull’identità di bambini, soggetti fragili per definizione.



Ma allora qual è la logica di questo provvedimento?

Questo provvedimento risponde a un’idea di famiglia tutta sociale, legata al pragmatismo quotidiano, che però dimentica totalmente l’origine della persona e la sua identità.

In che senso “famiglia sociale” e “pragmatismo quotidiano”?

Vi sono alcuni casi in cui può darsi che il figlio è da lungo tempo e felicemente inserito nella nuova famiglia della madre e potrebbe risultare riconosciuto socialmente più con il nuovo cognome coniugale della madre che non con quello del padre naturale. Ma, appunto, sono eccezioni vagliate di volta in volta dalla giurisprudenza amministrativa che ha così talvolta riconosciuto che il precedente figlio anche nella nuova famiglia sia considerato e trattato come figlio anche da parte del nuovo coniuge della madre (c.d. tractatus) e così sia riconosciuto nei rapporti sociali e familiari (c.d.  fama).



Perché invece l’approccio del Governo è secondo lei erroneo?

Perché – per quanto è dato capire dal comunicato del Governo sul punto – da un caso particolare pare emergere una regola generale: che la donna divorziata possa sempre attribuire ai figli il cognome del nuovo coniuge. Dunque anche imporlo. Il che apre anche un conflitto di competenza tra poteri amministrativi e tutela del nome davanti ai giudici ordinari, essendo materia del legislatore e non dell’autorità governativa. Aggiungo anche che, almeno nelle poche righe del comunicato del Governo, nessun potere di opporsi è assegnato ai figli, il che contrasta addirittura con le norme sull’adozione.

Ecco, professore, ci i può spiegare la differenza sostanziale di un ragazzo che assume il cognome dei coniugi che lo adottano rispetto a quello che succederà in questi casi? 

Mi pare sia chiaro che il tratto identificativo del cognome non sia solo un fatto burocratico e formale ma incida direttamente sullo strettissimo legame che esiste fra nome e rapporto di filiazione. Normalmente è infatti dalla filiazione che origina il nome. Nell’adozione si verifica una situazione giuridicamente identica, in quanto è ormai avvenuto l’abbandono da parte dei genitori biologici e i nuovi genitori civili hanno entrambi tutte le prerogative tipiche del padre e della madre. Ma proprio per questo nel procedimento di adozione è previsto che anche i figli siano presi in considerazione e debbano prestare il loro consenso se maggiori di quattordici anni. Del resto anche al nuovo coniuge della madre sarebbe consentito adottare il figlio di lei. Ciò riporterebbe identità del cognome del figlio in linea con il rapporto di reale parentela, essendo diventato il nuovo coniuge anche padre adottivo. Questa è la soluzione ordinaria, non quella dell’attribuzione di un cognome “sociale”, non “giuridico”.

Dunque una bocciatura senza appello per il governo?

No, l’appello si concede sempre. E infatti mi pare un buon segno che, aldilà del comunicato stampa, ad oggi sul sito del Governo non si possa ancora scaricare alcun testo integrale del provvedimento: spero che questo significhi che stanno rimeditando la vicenda. Tra l’altro formulo un quesito pragmatico – come postula un provvedimento governativo di “semplificazione”: e se poi la donna divorzia di nuovo e si risposa, consentiamo che il figlio entri in un vortice di cognomi senza fine? Mi pare che piuttosto che semplificare, ciò complichi tutto, a cominciare dalla vita del figlio. E inoltre, perché allora non consentire anche ai padri divorziati di attribuire il cognome della nuova partner, visto che, come detto all’inizio, anche la donna ha ora diritto ad aggiungere ai figli anche il suo cognome?