Ha goduto recentemente di ampia risonanza sui media nazionali la sentenza n. 4184 della Corte di Cassazione (Sezione Prima – Presidente Luccioli), percepita dai più come un’ulteriore apertura verso il cosiddetto matrimonio-gay. Che cosa c’è di vero in questa percezione? Innanzitutto, in poche battute, il caso deciso dalla Suprema Corte. I signori X e Y, entrambi cittadini italiani di sesso maschile, avevano contratto matrimonio in Olanda – Stato europeo il cui ordinamento, così come quello spagnolo, belga, norvegese, svedese e portoghese, ha recentemente eliminato la diversità sessuale come requisito essenziale dell’istituto matrimoniale – e, rientrati in Italia, avevano richiesto all’Ufficiale dello Stato Civile del comune di residenza la trascrizione dell’atto matrimoniale formato dall’amministrazione olandese.
Il rifiuto alla trascrizione opposto dal pubblico ufficiale italiano, motivato dalla contrarietà dell’atto all’ordine pubblico interno, era stato impugnato dinanzi all’autorità giudiziaria, ma prima il Tribunale di Latina e poi la Corte d’Appello di Roma avevano confermato la legittimità del rifiuto, ritenendo “inesistente” per l’ordinamento nazionale il matrimonio contratto tra persone dello stesso sesso.
La Corte di Cassazione, a seguito del ricorso proposto da X e Y, era stata quindi investita del vaglio di legittimità della sentenza di rigetto pronunciata dalla Corte d’Appello di Roma. E, si badi bene, con la sentenza n. 4184 la Corte di Cassazione ha confermato quanto deciso dalla Corte d’Appello di Roma, ribadendo l’intrascrivibilità nel registro degli atti dello stato civile di un atto di matrimonio tra persone dello stesso sesso formato all’estero, e cioè, in definitiva, il non riconoscimento da parte della Repubblica Italiana ai signori X e Y dello status coniugale.
Perché allora tanto clamore mediatico? Perché nella motivazione della sentenza i giudici di legittimità, nel confermare quanto deciso da quelli di merito, hanno espressamente ritenuto superato il tradizionale giudizio di “inesistenza” del matrimonio omosessuale, valutando «radicalmente superata la concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi è presupposto indispensabile, per così dire “naturalistico”, della stessa “esistenza” del matrimonio» (§ 4.3), e concluso per la mera inidoneitàdi tale matrimonio a produrre effetti giuridici nell’ordinamento italiano.
Immaginiamo che effettivamente la lettura della proposizione di cui sopra abbia fatto rizzare a qualcuno i capelli in testa; ed effettivamente l’accettazione supina di simili affermazioni, provenienti da autorevole consesso, appare anche al più ingenuo degli interpreti foriera di intuibili conseguenze. Non è allora inutile chiedersi: dove si è verificato il “superamento” della concezione tradizionale del matrimonioregistrata dal collegio decidente? Chi né è l’autore?
Nel (troppo) lungo iter motivazionale posto a supporto della decisione, i giudici della Cassazione danno onestamente atto della circostanza per cui né le fonti di diritto interno (legge ordinaria ed atti equiparati), né la Carta Costituzionale consentono di ritenere sorpassata in Italia detta concezione “tradizionale”, affermando che «il diritto fondamentale di contrarre matrimonio non è riconosciuto dalla nostra Costituzione a due persone dello stesso sesso» (§ 3.1).
Il mutamento della “realtà giuridica” sarebbe invece un portato dell’Europa, ai cui organismi viene addossata la responsabilità di aver creato condizioni tali da imporre al giudice nazionale italiano lo scardinamento di categorie fondamentali dell’ordinamento interno. In estremissima sintesi, nella sentenza si valorizzano due fonti extranazionali, l’articolo 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), secondo il quale “a partire dell’età maritale, l’uomo e la donna hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia, secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di questo diritto”, e l’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (cosiddetta Carta di Nizza), secondo il quale “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”.
Queste norme non hanno efficacia interna diretta nel nostro ordinamento nazionale – la Cedu è un trattato, quindi una fonte di diritto internazionale, mentre la Carta di Nizza è un atto interno dell’Unione europea – e il loro contenuto non ha all’evidenza alcun effetto cogente quanto alla definizione dell’istituto matrimoniale. Il giudice nazionale, in dipendenza di quanto disposto dall’attuale articolo 117 della Costituzione, così come novellato nel 2001, ha però l’obbligo di conformare la propria attività interpretativa ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, e tra essi dai diritti fondamentali così come interpretati dalla Corte Edu (cosiddetta interpretazione convenzionalmente conforme).
Nell’esercizio della propria attività ermeneutica, la Corte di Cassazione ha affermato di voler attenersi a tale canone interpretativo, portando avanti un’opera di uniformazione del nostro ordinamento a disposizioni di matrice europeistica, e ciò ha inteso realizzare recependo espressamente interi passaggi motivazionali di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (la cosiddetta Corte di Strasburgo) di portata asseritamente innovativa, la sentenza del 24.6.2010 Schalk e Kopf contro Austria.
Non si vuole in questa sede entrare nel dibattito tecnico sotteso a tale modalità di recepimento degli esiti interpretativi della Corte di Strasburgo, per molti versi problematico e tuttora lontano da esiti di pacifico approdo. Vale la pena però evidenziare che nella citata pronuncia la Corte di Strasburgo, chiamata ad accertare l’avvenuta violazione dei diritti riconosciuti dalla Cedu realizzata dalla Repubblica austriaca mediante il rifiuto di dar corso alla registrazione di un matrimonio omosessuale (caso per molti versi analogo a quello sottoposto alla Corte di Cassazione italiana), avesse risposto negativamente, escludendo che dall’articolo 12 della Cedu potesse derivarsi un obbligo positivo per gli stati aderenti di garantire a persone dello stesso sesso il diritto al matrimonio (§ 63) dal momento che «il matrimonio ha connotazioni sociali e culturali radicate che possono differire molto da una società all’altra. La Corte ribadisce di non doversi spingere a sostituire l’opinione delle autorità nazionali con la propria dato che esse si trovano in una posizione migliore per valutare e rispondere alle esigenze della società» (§ 62).
Tanto le fonti europee che la Corte di Strasburgo, nei limiti delle rispettive attribuzioni e competenze, hanno pertanto realisticamente mostrato di prendere atto del legittimo pluralismo europeo in materia di diritto di famiglia, escludendo di poter imporsi nelle vicende culturali e sociali proprie di ciascun popolo in assenza di un comune sentire europeo. Non altrettanta “sensibilità” ha invece dimostrato, nel caso di specie, la Corte di Cassazione, che ha invece lanciato il sasso nascondendo la mano dietro una discutibile dimensione di doverosità giuridica sovranazionale.
Forse un caso in cui il sentimento soggettivo del giudice e i suoi desiderata hanno finito per prevalere sulle necessità di una forte ragione argomentativa.
(Clara Caravaggi)