Tre invece di due: una sigla, una numerazione scientifica, una data scelta non casualmente. Ieri 21 marzo (21/3) era la giornata mondiale dedicata alle persone con la sindrome di Down. Una data non casuale perché i numeri riflettono quell’anomalia genetica che comporta tre cromosomi invece dei due che normalmente si hanno. Ecco perché questa giornata si è deciso di farla cadere il 21/3. Una sigla numerica fredda che non dice nulla però dell’incredibile ricchezza e anche della sofferenza che si cela dietro al mondo dei cosiddetti Down. Se ieri si è dato vita a tante iniziative (in Italia promosse dal Coordinamento nazionale delle associazioni CoorDown) come le campagne pubblicitarie di sensibilizzazione, in pochi o nessuno hanno parlato di una realtà tristemente allarmante. Si contano oltre 38mila persone colpite dalla sindrome in Italia, è stato detto: se ne contano molte di meno da quando sta diventando pratica assai diffusa abortire quando viene segnalato che il bambino che si sta aspettando è colpito dalla sindrome. 



IlSussidiario.net racconta due storie, legate fra di loro. La prima, che tiene unito il tutto, è quella di Alessandro e Francesca, due coniugi di Chiavari, Liguria, che anni fa furono avvertiti dai medici che il figlio che stavano aspettando, il secondo, era afflitto dalla sindrome di Down. Il parere di molti dei sanitari fu: le consigliamo di abortire. Non lo fecero, e sebbene il bambino che nacque, Simone, sarebbe morto a soli 6 anni per una serie di complicazioni aggiuntive, non se ne sono mai pentiti. Anzi. Chiunque ha conosciuto Simone ricorda un bambino costantemente felice, nonostante le sofferenze a cui doveva sottostare. Simone infatti soffriva di una grave malformazione dell’esofago che lo costringeva a nutrirsi attraverso un sondino e a subire molti interventi chirurgici e lunghi ricoveri. Il padre ricorda “ricoveri di mesi e mesi, operazioni una dopo l’altra, una di queste devastante”. Un tentativo mal riuscito, un esperimento da parte di alcuni medici che data la rarità del caso sembrava lo usassero come cavia.



Alessandro ricorda quel giorno, l’ultimo: “Quello del giugno 2005 era il periodo più bello. Le prime camminate, le risate insieme, alla luce dei 6 anni appena compiuti. Quando stava bene Simo era sempre allegro, pareva che gli strazi fisici fossero perle di una collana lucente da mostrare con gioia. Sembrava la quiete dopo la tempesta. Eppure il 30 giugno la morte. Inattesa, fulminante. I disperati tentativi di rianimarlo, le mie labbra serrate alle sue, già fredde, in un impossibile volontà di soffiargli la vita”. Simone non ce la fa a sopravvivere. “Ricordo con gli occhi pieni di lacrime il suo viso” racconta Alessandro, “lo sguardo fisso che sembra dirmi arrenditi papà, lasciami andare, lascia che si compia il mio destino”. Intorno a Simone anche la mamma e le due sorelline nate in seguito. “Vorrei sapere, vorrei capire. Vorrei riaverlo” dice Alessandro.  “Grido nel silenzio e pretendo. Ma è un silenzio pieno quello. Non è disperazione pura. E’ lì, lo sento. Cristo è lì. Ho l’illusione di non riconoscerlo, ma è impossibile. Non mi arrendo, ma è lì per me non nonostante me”. Dopo sette anni da quel gironi, aggiunge Alessandro, non ho ancora capito, ma non importa. Un giorno tutto sarà chiaro. “E’ una Grazia averlo avuto, ne sono certo. Lo ripeto periodicamente, non come un disco incantato, io lo so perché. E’ tutto per un disegno buono ma la mia natura di uomo meschino fa a pugni, non si arrende. Ancora oggi. A volte, mi sembra di non resistere, il cuore sembra lacerarsi ancora. Eppure mi viene da ringraziare di averlo avuto”.



Che quelle di Alessandro non siano parole prive di concretezza e che un disegno buono c’è veramente lo dimostra quanto accaduto dopo la morte di Simone. Proprio nello stesso modo con cui lo hanno accompagnato nella sua esistenza terrena, i genitori di Simone e i loro amici hanno messo su una piccola iniziativa, per far sì che la vita di tutti sia sempre accolta. Si tratta dell’Associazione Simone Tanturli, che combatte perché a tutti, anche ai bimbi che hanno problemi e handicap fisici, sia dato il diritto di andare a scuola, e nella scuola che i genitori pensano sia meglio per lui. Perché lo Stato italiano ancora fa discriminazione, nonostante la Costituzione dica altrimenti, a proposito della libertà di educazione. Una associazione che si impegna a trovare fondi per sostenere bambini come Simone a scuola, nelle scuole, perché costa tantissimo avere bambini del genere, e il costo ricade quasi interamente sulle spalle della famiglia.

L’Associazione ha dato tanti frutti: serate di festa, momenti condivisi con centinaia di persone, ma soprattuto sta regalando una coscienza nuova a chi ne fa parte e la possibilità di incontri impensati. Uno di questi avvenuto con alcuni carcerati di Chiavari, incontrati casualmente mentre si stava facendo un momento pubblico di raccolta fondi con la vendita di cioccolata calda. Erano fuori per un permesso speciale di poche ore, si sono imbattuti negli Amici di Simone. Ne è nata una amicizia che supera le mura del carcere e ha coinvolto molte di queste persone dalle vite drammatiche a impegnarsi in prima persona per l’Associazione. Quando ce’è da preparare una cena o una festa, loro, i carcerati, ci sono sempre.

 

Ma gli incontri sono di natura diversa fra loro. Anche con una semplice lettera. Come quella che ha scritto la mamma di Simone, Francesca, quando ha saputo di una ragazza che voleva abortire il figlio che le era stato detto essere affetto da sindroem Down. Ne riportiamo alcuni passaggi.

 

“Mio figlio Simone era affetto da sindrome di Down, ma direi che questo era l’ultimo dei suoi problemi perché la vera lotta della sua breve vita è stata contro una grave malformazione dell’esofago che lo ha sempre costretto a nutrirsi attraverso un sondino e lo ha costretto a subire molti interventi chirurgici e lunghi ricoveri, tanto che non ha mai imparato né a parlare né a camminare. Il motivo per cui tento di scriverti queste righe è che vorrei provare a raccontarti che quando ho saputo che mio figlio aveva queste problematiche ero alla 23esima settimana di gravidanza, avevo già una bimba di soli 2 anni e lo smarrimento e la confusione erano davvero immensi, ma nessuno di quei tremendi pensieri riusciva a contraddire una verità che sentivo nel profondo del mio cuore: lui era il mio bambino. Quando la dottoressa terminò di comunicarmi la diagnosi mi fece una domanda che mi gela le ossa ancora adesso che sono passati molti anni: “Cosa vuole fare?”. Io in quell’istante, pur facendomela sotto, ho capito che non c’era dolore, difetto, diversità, limite, imperfezione, che avrebbe mai potuto portarmi a rispondere qualcos’altro, e le ho risposto: “Niente, aspetto che nasca mio figlio”. Lei era stupita della mia risposta e si è complimentata per il mio coraggio, come poi altre volte mi è capitato, ma io ti giuro che ancor oggi non riesco a capire come possa volerci del coraggio ad amare tuo figlio, a maggior ragione se è malato!

“Continuavo a pensare a Sara, la mia primogenita, ma anche a tutti gli altri bambini che conoscevo, belli, sani e intelligenti, e mi chiedevo: ma se si ammalassero gravemente per qualche ragione e perdessero in tutto o in parte quelle qualità che fanno di loro dei bambini “ben riusciti”? Cosa faremmo? La risposta va da sé: li ameremmo, e se è possibile ancora di più. Saremmo al loro fianco in ogni istante difficile, in ogni cosa nella quale non riescono, cercheremmo di aiutarli a crescere, faremmo tutto quello che possiamo perché siano felici. In parole povere faremmo semplicemente le mamme e i papà. Certo, soffrendo e lottando forse un po’ di più. E allora perché il solo fatto che lui non fosse ancora venuto alla luce doveva mettere in dubbio che fosse mio figlio e io la sua mamma? 

 (…) Cara Maria, vorrei poterti raccontare quanta gioia, quanta vera felicità, quanta commozione abbia portato Simone nella nostra famiglia e tra i nostri amici, quanto sia valsa la pena di dire di sì, di accogliere la sua esistenza anche se lui non era perfetto e il suo corpo non era sano. Vorrei poterti raccontare che ricomincerei tutto da capo, se potessi, che i suoi sorrisi, il suo chiamarmi mamma (e chiamare mamma tutto il resto, compreso suo padre!), le sue manine che battevano quando era felice, i suoi capricci, i suoi splendidi occhi lieti e fiduciosi, la sua voglia di vivere, mi mancano immensamente e non rimpiango nulla se non il fatto che avrei voluto averlo con me per sempre. 

(…) Cara Maria, c’è un’evidenza contro la quale spesso noi poveri uomini cerchiamo invano di combattere, non so bene perché, ed è che la vita è assolutamente, inevitabilmente un dono. L’espressione “aspettare un figlio” è di una struggente verità perché nella parola “attesa” c’è tutta la nostra impotenza, il nostro bisogno di affidarci, la nostra impossibilità di creare qualcosa da soli. Noi possiamo solo attendere. Una mamma attende che arrivi il suo bambino, proprio quello e non un altro, e lui attende nel silenzio e nel calduccio della pancia di essere abbracciato e amato. So che queste parole sono dure, nella loro banalità, e immagino che tu stia soffrendo, insieme a tuo marito, mentre ti chiedi come usare la tua libertà; io posso solo suggerirti di usarla per dire di sì a questo dono, anche se adesso non ti sembra tale. Sono certa che se dirai di sì nella tua vita si riverserà un amore Infinito, che ti ripagherà di ogni fatica, e ne sono certa perché me è successo esattamente questo”.

 

(Paolo Vites)