Verona. Si parla di riforma del lavoro, ma che cos’è il lavoro? Siamo sicuri di intendere tutti la stessa cosa, quando parliamo di lavoro?
Ieri un operaio edile di origine marocchina ha tentato di uccidersi dandosi fuoco, a Verona, davanti al Municipio. Per fortuna è vivo, probabilmente se la caverà, ma è già lunga la lista di chi non è più tra noi.
Cinicamente, i media e i sociologi parlano di “storie della crisi”, o di “effetto-crisi”. Il cinismo non esige la cattiveria: spesso è l’ultimo stadio della bonarietà, dell’atteggiamento comprensivo e pacato di chi vuol “capire”.
Ma qui c’è poco da capire. Siete mai stati a Verona? Una delle città più belle d’Italia, dove si sta bene soprattutto se si hanno i soldi. A Verona i soldi hanno la loro bella importanza. Ai veronesi piace vestirsi bene, passeggiare in via Mazzini e in via Cappello, acquistare le scarpe nel negozio giusto. In molte case veronesi c’è il ritratto di Radetzky: segno che, qui, la Lega ha una storia molto più vecchia di Umberto Bossi.
E l’operaio marocchino che si dà fuoco, che c’entra con tutto questo? C’entra, perché Verona è una città dove si sa che cos’è il lavoro, dove la vita costa cara, e per guadagnarsi le scarpe giuste e il soprabito firmato c’è da galoppare.
E quando un operaio edile, di quelli che se ne vanno in alto sui ponteggi e sui tetti, talvolta senza nemmeno il casco protettivo, non prende lo stipendio da quattro mesi, altro che scarpe: non ha nemmeno da mangiare. E a Verona mangiare costa.
C’è poco da capire. Il lavoro non è innanzitutto una funzione dell’economia. Il lavoro, prima di essere remunerato, deve essere ben fatto. A Verona queste cose te le insegnano. Esiste un’etica del lavoro, qui l’arte di arrangiarsi non è ben vista: lavorare sodo e bene è la prima regola. Rigare dritto la seconda.
Ma poi c’è la terza, fondamentale: la giusta mercede. Per vivere dignitosamente. Perché se non vivi dignitosamente, chi mai può pretendere che tu lavori dignitosamente?
Cosa farei, io, dopo quattro mesi senza stipendio, senza un soldo da mandare a casa, senza un soldo per me? A quale ragazza potrei dire “ti voglio bene”? Che fiori potrei regalarle? Dove potrei portarla a cena? Nemmeno al McDonald’s. Quattro mesi senza stipendio sono come un pezzo di libertà e di dignità in meno: sei meno uomo, senti che la personalità ti si raggrinzisce, perché quattro mesi senza stipendio sono quattro mesi passati soprattutto a chiederti quando finirà, sono quattro mesi passati a chiedere se almeno per il mese prossimo si potrà sperare…
Ma qui, a Verona, dove l’economia regge ancora, aggrappandosi con le unghie e coi denti all’estrema volontà di non mollare; qui, dove tutto sommato esiste un’etica del lavoro, e ai padroni dispiace, sinceramente, di non poter pagare i loro operai; qui si sente la mancanza, tragica, di una cultura del lavoro.
Chi può dire a un ragazzo marocchino di ventisette anni: stringi la cinghia? Chi può dirlo a chiunque? E’ una ragione sufficiente la volontà di tener duro nella speranza che, forse, prima o poi si uscirà dal tunnel?
Corrado Passera c’insegna che per tutto quest’anno saremo in recessione: per il prossimo si vedrà, può darsi, forse, magari, chissà. Anche lui non ha altro da dirci che questo: stringete la cinghia. Non è sufficiente: ci vuole una ragione più grande, che l’economia non sa dare, come non la sanno dare gli ingegneri sociali.
Sono in tanti, veramente in tanti quelli che da mesi vanno a lavorare senza stipendio, e accettano questa umiliazione con una forza d’animo quasi incomprensibile. E’ comprensibile, invece, che qualcuno non regga. E’ successo a operai, è successo a imprenditori, e la lista si allunga. Il fatto è che, tra le necessità contingenti che impongono il sacrificio e la dignità calpestata che ne consegue per tanti miseri, si è scavato un grande fosso, un grande vuoto di significato, un perché? inevaso, che investe non solo il portafoglio ma anche la casa, gli affetti, il tempo.