M.G., 49 anni, a seguito di un procedimento penale del 2001, sconta 4,8 anni di carcere tra il settembre dello stesso anno e l’aprile del 2006, per lo più agli arresti domiciliari. In data 22 febbraio 2012 riceve una telefonata dalla banca dove ha il suo conto corrente, quello dove gli viene accreditato lo stipendio e attraverso il quale paga l’utenza della casa che ha in affitto. Gli viene comunicato che la banca ha ricevuto un decreto ingiuntivo da Equitalia che impone il sequestro del suo conto corrente e di tutti i versamenti che su di esso dovessero arrivare in futuro.



Il 28 dicembre 2011, M.G. aveva ricevuto un avviso da Equitalia che lo ritiene debitore nei confronti dello Stato di 695.000 euro per spese giudiziarie. L’ente creditore è la Corte d’Appello di Brescia e l’ufficio di Equitalia è quello di Cremona. La cifra è già di per sè spaventosa se si considera il reddito di un lavoratore medio; in questi casi, normalmente, viene concessa la remissione del debito non trattandosi di tributi evasi.



M.G. si reca immediatamente al Tribunale di Brescia dove il suo Avvocato l’8 febbraio aveva depositato un’istanza di remissione del debito sulla quale il Magistrato di Sorveglianza non si è ancora pronunciato e il cui accoglimento avrebbe dovuto quanto meno sospendere l’esecuzione del provvedimento. L’astronomica cifra che gli viene chiesta era in solido con tutti gli imputati del procedimento risalente al 2001, ma agli altri imputati è stata concessa la remissione del debito.

Il Magistrato gli comunica che la sua istanza è inammissibile a causa di un rapporto disciplinare. L’ammontare, a seguito di un incasso di 250.000 euro, era diventato di 488.000, ma gli interessi che Equitalia ha calcolato hanno riportato la cifra quasi all’importo originario e interamente addebitata a suo carico. Si tratta sostanzialmente di un ergastolo finanziario, nei confronti di una persona che, dopo aver scontato la sua pena, si è ricostruita una vita, anche lavorativa (M.G. è account presso un’agenzia pubblicitaria).



Inoltre, come è stato reso edotto al Magistrato di Sorveglianza di Brescia, M.G. ottempera alla sua situazione familiare e – in particolare – al suo ruolo di padre “con la dovuta diligenza, precisione e affetto”, come da dichiarazioni prodotte della madre del figlio da cui M.G. è separato.

IlSussidiario.net ha contatto l’Avvocato Enrico Giustino Moggia, che assiste il signor M.G., per capirne di più rispetto a una situazione che esprime quantomeno qualche criticità rispetto alla finalità e al valore rieducativo della pena affermato dall’articolo 27 della Costituzione.

Avvocato, perché al sig. M.G. non è stata concessa la remissione del debito?

M.G. ha già avuto, nell’anno 2006, una pronuncia dal Magistrato di Sorveglianza di Mantova, con la quale è stata rigettata l’istanza di remissione del debito in quanto, allora, risultava residente all’estero e, quindi, non è stato possibile, per la Guardia di finanza, accertare la sua base reddituale onde consentire al Magistrato di decidere sul requisito delle disagiate condizioni economiche; risultavano, poi, due episodi di comportamento scorretto durante la detenzione (ammonizione presso la Casa Circondariale di Bergamo e litigio con altro detenuto presso la Casa Circondariale di Cremona). Ai fini della concessione del beneficio, devono infatti sussistere sia li requisito delle disagiate condizioni economiche, sia quello del comportamento corretto durante la detenzione.

E poi come si è proceduto?

Successivamente, l’8 febbraio 2012, più di 6 anni dopo tale pronuncia, proponiamo una nuova istanza presso l’ufficio di Sorveglianza di Brescia, assumendo mutata la situazione di fatto su cui si è fondata la prima pronuncia (residenza in Italia, nuova vita, nuovo lavoro, redditi tracciabili, ecc.) e sollevando nuove questioni di diritto (il primo dei due episodi di illecito disciplinare contestati non doveva essere considerato, in quanto antecedente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna e, comunque, dovevano essere apprezzati nell’ambito di una più complessa valutazione, che doveva tenere conto anche del percorso evolutivo intrapreso dal condannato, anche in stato di libertà).

 

Avete avuto risposta dal Magistrato?

 

No, il Magistrato di Sorveglianza di Brescia non ci ha ancora dato una formale risposta, comunque ci ha fatto capire in via informale che intende rigettare l’istanza, sussistendo la preclusione di un precedente giudicato; sul punto avrei delle obiezioni, in quanto è la Corte di Cassazione stessa a stabilire che “anche in mancanza di espressa previsione, è consentito rivalutare i presupposti per la concessione di un beneficio già negato quando si alleghi la sussistenza di una situazione di fatto diversa rispetto a quella presa in esame dai primi giudici, sulla cui decisione, qualora l’assunto risulti dimostrato, non può operare alcuna preclusione” (Cass. pen., sez. I, 3 giugno 1996, n 3870).

 

Una richiesta così ingente di spese processuali e l’intransigenza che il sig. M.G. sta subendo non rischiano di rendere ineffettivo il valore rieducativo della pena?

 

Circa l’effetto rieducativo della pena, premetto che, tecnicamente, il pagamento delle spese processuali non costituisce una pena, anche se, di fatto, non posso che convenire con quanti ritengono come, in casi come questo, una siffatta obbligazione per il condannato sia del tutto sproporzionata per le sue effettive possibilità economiche e, conseguentemente, possa rappresentare, in assenza di solidarietà sociale, una forte controspinta a commettere nuove condotte illecite.