Un uomo ha avuto 600 figli. La notizia, all’apparenza derubricabile nella sezione “notizie strane”, in realtà ha una sua evoluzione controversa e pericolosa. L’uomo, infatti, era il direttore di una clinica privata per la fertilità, a Londra. Invece che avvalersi del liquido seminale di altri donatori, ha usato il proprio per aiutare più di 600 donne a partorire. Nato in Austria, si chiamava Bertold Wiesner e fu direttore della Barton Clinic fino a quando non morì, nel 1972. Fu David Gollancz, avvocato londinese, ad accorgersi per primo della somiglianza con il padre biologico e ad indagare, per cercare i propri fratelli. Nell’impresa lo aiuta Barry Stevens, documentarista britannico, anch’egli figlio biologico di Wiesner. IlSussidiario.net ha chiesto ad Assuntina Morresi, membro del Comitato nazionale di bioetica, come valutare la vicenda. «Anzitutto – spiega Morresi –, è bene sottolineare che, in questo caso, non siamo di fronte ad una fecondazione in vitro. La prima bambina in provetta, infatti, nacque nel ’78, mentre la vicenda risale a prima del ’72. Si tratta di una fecondazione artificiale, quindi, che non coinvolge l’utilizzo di embrioni creati esternamente». La precisazione è preliminare ad un’altra distinzione fondamentale. «Quanto fece quell’uomo è, indubbiamente, deprecabile, un fatto deontologicamente gravissimo. Ma rappresentava pur sempre, per l’epoca, un’anomalia. Oggi, invece, situazioni analoghe possono anche essere pianificate. Con le banche del seme, sovente i venditori di liquido seminale diventano padri di numerosissimi figli. In maniera considerata, ormai, del tutto legittima».



Attenzione: è bene sottolineare l’utilizzo della parola “venditori”. «Nessuno regala niente. E non si deve, neppure, immaginare che il “donatore” limiti la sua azione al deposito di una provetta una tantum. E’ sottoposto a dei contratti con le banche del seme che prevedono un deposito periodico. Ad esempio, settimanale. Oltretutto, la fiala viene valutata a seconda del numero di spermatozoi. Chi vende deve impegnarsi a mantenere certi comportamenti, affinché il proprio seme sia utilizzabile». Una questione di business. «Se non girassero dei soldi, queste operazioni non sarebbero praticabili su larga scala». Tornando alle questione: «Si pianifica, volutamente, il fatto che questi bambini, molto probabilmente, non conosceranno mai il padre; dipende della legislazione vigente in ciascun Paese, e dalla concessione o meno di risalire a chi ha messo a disposizione il gamete».



Le implicazioni etiche e psicologiche infatti sono enormi. «I figli nati da eterologa vogliono sapere non solo chi sia il proprio padre biologico, ma anche i propri eventuali fratelli». Non tanto perché intendano cambiare famiglia. «Conoscere se stessi non vuol dire semplicemente guardarsi allo specchio, ma conoscere anche la rete di relazioni all’interno della quale si è nati». Per farci capire, Assuntina Morresi rivela la propria personale esperienza. 

«Io ho tre figli naturali e uno in affido. Assieme agli assistenti sociali, agli psicologi e agli specialisti abbiamo affrontato un lungo – e doveroso – percorso affinché il ragazzo arrivasse a distinguere chiaramente tra la figura dei proprio genitori biologici, e me e mio marito, che pure lo stiamo crescendo da dieci anni. Tale percorso si è reso necessario perché ogni figura importante nella vita di questo ragazzo sia associata alla relazione corretta». Il motivo è semplice: «Chi ha vissuto relazione dure, difficili o complicate con i propri genitori, difficilmente vivrà relazioni serene quando, a sua volta, avrà dei figli». In conclusione: «mentre intorno all’affido e all’adozione si sono stabilite una serie di cautele, nel caso che stiamo esaminando di punto in bianco si è detto che si può pianificare la nascita di un figlio, sapendo benissimo che avrà dei genitori sconosciuti».



 

(Paolo Nessi

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