Perché un paese carico di problemi, distratto dall’attesa di una primavera in ritardo, si unisce attento e commosso per la morte di un ragazzo di 26 anni? Era un calciatore, era un personaggio pubblico. Qualcuno ha commentato, che ingiustizia, però, muoiono tanti ragazzi ogni giorno. La morte non è una signora in nero con la falce, che azzera tutte le erbe del prato, tutte uguali, senza pietà. Noi siamo fiori diversi uno dall’altro, abbiamo respiri e colori e profumi speciali, siamo unici, valiamo il pianto, l’attenzione del mondo.
Piermario era un calciatore, non particolarmente famoso. Una vita difficile, con un carico precoce di responsabilità, che ne hanno mostrato la tempra, la stoffa di un uomo. Questo contava più che muoversi bene in campo, per molti colpiti dalla sua dolcezza e coraggio. Quando si resta soli, una famiglia che ti lascia con i tuoi sogni sempre più ardui da inseguire, e lo sguardo di quella sorella fragile, cui dovevi essere padre e fratello e amico.
Grande Piermario, ti hanno notato in tanti, nella tua Bergamo, nelle tante città dove il pallone ti ha portato a guadagnarti uno stipendio, prima che la fama. Ce n’era bisogno, per la sorellina, per la tua Annina, con cui eri certo di formare una famiglia. Le volevi un bene pulito, semplice, tenero. Lo sappiamo dalle fotografie, dai commenti alle giornate passate insieme.
Lo vediamo da come regge davanti alla bara, nella tua parrocchia, in questa mattina incerta di aprile, questa ragazza bella e gentile, che ti ha visto bello e sorridente anche nella morte, perché ti conosce bene, e lo sa, tu non piangi mai, non vuoi che si pianga per te.
Anche la sua mamma l’ha detto, in chiesa: chiamami per nome, figlio mio, non sono più signora, per te. Vedi, hai trovato un’altra madre. Vedi hai qui tanti fratelli, i primi accorsi all’obitorio, domenica sera, i ragazzi del tua oratorio, dove sei cresciuto e hai cominciato a correre, gli amici del calcio, i tifosi, per qualche giorno sobri dalle sbronze da stadio e capaci di stare in silenzio, di inchinarsi, pensare.
Quante cose insegna la morte di un ragazzo, ha detto il tuo parroco, e si capisce che vi conoscevate bene, che la confidenza era profonda. Piermario mi ha ricordato il compito della paternità, ha detto. Piermario che ci è stato donato, e siano benedetti il suo papà e la sua mamma, siano benedetti i giorni e le ore che ci sono donate. Piermario che non era un ragazzo speciale, perché la santità non è eccezionale, perchè la fede è roba per uomini normali, è semplice come la terra, come un Papa che dava le carezze, la fede di questa terra è la fede dei nostri ragazzi.
Piermario che ci insegna a essere quel che Dio vuole da noi: non esseri prodigiosi. Che non si possono riprodurre nella nostra storia e nella nostra umanità. Siamo chiamati tutti, ad essere miracolo a noi stessi, a chi ci sta intorno. È questo che fa pregare, che fa cantare, che fa dire grazie. Che pazzia, se uno non è qui. Come diceva questo ragazzo testardo e timido, che avrebbe avuto tante buone ragioni per ribellarsi e piangere: davanti alla vita ho più grazie da dire che recriminazioni da fare.
Poi certo, fuori ci sono gli stendardi, gli striscioni, i manifesti, le scritte sui muri, gli slogans, i vertici della Lega Calcio, presidenti, capitani, allenatori, medici, eccetera, eccetera. Le canzoni di Ligabue, così dissonanti rispetto alla foto che sta sulla tua bara, perché sono tristi, non danno speranza e consolazione. Tu stai lì, bello come Gesù, così potentemente fragile, così abbandonato nelle Sue braccia, ora, perché il mondo veda.