Che la si intenda come castigo, la giusta sanzione, l’ultima carta da giocare per riabilitare un uomo, o l’unico mezzo per impedire a un malfattore di nuocere ancora, poco importa; la privazione della libertà dovrebbe essere sempre ritenuta l’extrema ratio. Almeno, da una società che attribuisce alla libertà una rilevanza particolare, quella di essere uno tra i valori – se non il valore prevalente – fondanti la società stessa e il vivere civile. Si dà il caso che comunità così intese siano identificabili nella maggioranza delle democrazie occidentali, che di tali principi hanno fatto i propri pilastri. Ecco, quando vengono meno, qualcosa non va. Il distorto uso, in Italia, della custodia cautelare pone alcuni interrogativi. IlSussidiario.net ne ha parlato con Maria Laura Fadda, magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Milano. «Secondo la legge – spiega Fadda – la custodia cautelare, ovvero la privazione della libertà personale, anche mediante gli arresti domiciliari, viene disposta in tre casi: quando c’è il pericolo di fuga per l’indagato, di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove. E’ il pubblico ministero a chiedere che venga disposta la misura, mentre la decisione del giudice mediante provvedimento può essere impugnata dall’imputato presso il Tribunale del riesame che ha lo scopo di valutarne la congruità».
Qualcosa, nel meccanismo procedurale, non funziona. «Le statistiche dimostrano che, in Italia, se ne fa un utilizzo ben più abbondante che negli altri Paesi. Basti pensare che, da noi, ben il 40 per cento dei detenuti italiani è in custodia cautelare, contro una media europea del 20 per cento». La Fadda ci descrive la situazione di San Vittore, che conosce particolarmente bene: «ci sono 1500 uomini e 100 donne, il 98% dei quali è in custodia cautelare. Di questi, 4-500 si trovano in carcere per reati la cui pena è inferiore all’anno». C’è una tipologia di reato che prevede un’applicazione di tale misura detentiva più frequente. «In particolare, per lo spaccio, il furto o la rapina. Quei crimini che potrebbero mettere più seriamente in pericolo l’incolumità delle collettività».
Resta la perplessità iniziale: «non si capisce cosa motivi tali numeri. Di certo, non si può dire, infatti, che in Italia la criminalità sia maggiore che altrove». Le ragioni potrebbero essere altre: «un certo modo di trattare le inchieste da parte della stampa, inseguendo lo scoop a tutti i costi, ha fatto sì che nell’opinione pubblica venisse meno il principio della presunzione d’innocenza dell’indagato; si aggiunga il fatto che i processi da noi sono estremamente lenti, e che il timore della reiterazione del reato, di conseguenza, è più elevato e, forse, in certi casi, troviamo una spiegazione. Per il resto, tuttavia, siamo di fronte a dati non giustificati». Dati che sfociano in alcuni interrogativi di fondo. «Vien da chiedersi se di fronte, ad esempio, al furto di un bene di non elevato valore, ove venga disposta la custodia cautelare e l’imputato sia destinato alla carcerazione in condizioni, spesso, disumane, quale bene vada fatto prevalere. La tutela della collettività dal pericolo di recidiva, o la tutela delle dignità della persona che sarebbe chiusa in una cella dove ciascuno dispone di un metro quadrato?».
Le condizioni disumane di cui parla il magistrato sono per lo più note alla cronache, seppur poco spesso se ne parli. «Le carceri italiane non versano di certo in una felice situazione. Anzitutto a causa del sovraffollamento. San Vittore è stato fatto per ospitare 600 persone, con una tolleranza massima di 800. Ce ne sono 1600. Consideri che due reparti sono stati chiusi perché sono pericolanti. I detenuti, come se non bastasse, possono uscire dalla loro celle al massimo 4 ore al giorno». E sempre il sovraffollamento «rende impossibile, anche se sarebbe doveroso, collocare chi è stato condannato e chi, invece, è in custodia cautelare in celle distinte». Un dramma; tanto più che anche chi è sottoposto alla custodia cautelare, rischia in certi casi di rimanere in carcere a lungo. «La misura, infatti, viene stabilità proporzionalmente al reato per il quale il soggetto è indagato».
(Paolo Nessi)