Le cronache delle ultime settimane  hanno registrato una triste serie di suicidi commessi da titolari di imprese che per effetto di crisi finanziarie ed economiche si sono trovati in grave stato di indebitamento, di insolvenza, di fallimento.  Nella maggior parte di queste cronache la causa principale del suicidio viene attribuita alla negazione di linee di credito da parte di banche o di società finanziarie e al contemporaneo aumento della pressione fiscale. 
Ben poco ci viene però raccontato del contesto extraeconomico in cui è maturato il tragico gesto (stato di salute fisica e psichica, rapporti familiari, affettivi, sociali), mentre maggiore dovizia di particolari è riservata al “mezzo di esecuzione” (arma da fuoco, impiccagione, precipitazione, avvelenamento, ecc.) non solo perché sono più facili da accertare, ma anche perché appagano maggiormente la curiosità superficiale dei lettori e degli ascoltatori.  Quasi nulla ci viene detto della tragica solitudine in cui si è consumato questo gesto estremo e della svolta  positiva che poteva imprimere qualche forma di compagnia e di solidarietà concreta.
Ancor più discutibile è il fatto che questi suicidi vengano “usati” per mettere sotto accusa  le banche, il fisco, il governo, le politiche di rigore, come se su questi aspetti non bastassero altre e  ben più robuste argomentazioni. All’interno di questo uso strumentale serpeggia anche una pericolosa giustificazione di questi gesti estremi (che è cosa ben diversa dalla comprensione addolorata e silenziosa per chi ha commesso il suicidio), trascurando il rischio di alimentare, nelle persone fragili, comportamenti imitativi  con il sostegno della tragica sensazione di essere eroi che combattono per una giusta causa.  L’impietoso meccanismo della comunicazione gridata e accusatoria soffoca le riflessioni sulle ragioni profonde che, come un fiume carsico, conducono alla decisione di “farla finita” e non aiuta a guardare in faccia ai reali aspetti di questo fenomeno.
Al di fuori da intenti polemici e chiassosi, si deve purtroppo riconoscere che in presenza di crisi economiche  (da declino o da impetuoso sviluppo),  come di eventi che indeboliscono i legami sociali  e familiari (per conflitti, abbandoni, separazioni, vedovanze)  la “corrente suicidogena” aumenta di intensità dentro al corpo della società e dei suoi membri più fragili, come hanno documentato (a partire dalla fine dell’800) gli studi sull’andamento dei tassi di suicidio in ciascuna società e fase storica. Al pari di altri comportamenti “devianti” e “anomici” il tasso di suicidio è un drammatico campanello di allarme del disagio collettivo in cui versa la società che contribuiamo a costruire. In presenza di eventi sfavorevoli è purtroppo noto che anche i suicidi possano aumentare, sia in senso generale, sia nei gruppi sociali più svantaggiati (per età, stato civile, condizione lavorativa,  posizione occupazionale).



Gli ultimi dati ufficiali resi noti dall’Istat il 5 marzo scorso, relativi all’anno 2010, ci aiutano a fissare le dimensioni del fenomeno e il profilo delle sue principali caratteristiche. In Italia dal 2001 al 2010 si sono registrati circa 3000 suicidi all’anno (con un picco di oltre  3250 nel biennio 2003-2004), a cui va aggiunto un  numero pressoché equivalente di tentati suicidi  che pure denotano condizioni preoccupanti di disagio personale e sociale (Figura 1). Il peso della solitudine e dell’emarginazione sociale su questi comportamenti è evidenziato dal fatto che  il tasso dei suicidi e dei tentati suicidi è più elevato tra gli individui più anziani, gli individui celibi o nubili,  i disoccupati piuttosto che tra i più  giovani, i coniugati, gli occupati. La presenza di un numero elevato di disoccupati e di persone in cerca di occupazione tra coloro che hanno commesso o tentato il suicidio chiede di spostare  l’attenzione sulla parte economicamente e socialmente svantaggiata della popolazione particolarmente esposta ai rischi dell’isolamento e della marginalità sociale.  I dati sulle motivazioni che spingono a gesti disperati mostrano infine che le cause specificamente economiche hanno un peso minoritario (tra il 6-7% del totale), mentre in primo piano vi sono le condizioni di salute problematiche (43%), e i problemi affettivi (17%)  che attengono direttamente al bisogno di legami autentici e durevoli. Anche i suicidi degli imprenditori, messi oggi al centro della comunicazione pubblica, non sono riconducibili principalmente a ragioni economiche ma condividono, al pari di quelli delle altre categorie professionali, l’intera gamma delle motivazioni accertabili.



Dal punto di vista scientifico è oggi prematuro stabilire se la crisi economica farà crescere i  suicidi per ragioni economiche, ma è realistico attendersi che l’aumento della disoccupazione, della instabilità familiare (collegata alle separazioni, ai divorzi, agli abbandoni di fatto), della solitudine degli anziani che vivono nelle grandi città, della secolarizzazione e della perdita di valori “certi” renderà più fragile la coesione sociale che,  secondo una consolidata tradizione di studi sociali, rappresenta il principale  contrappeso  alle correnti suicidogene.



La consapevolezza di questi (prevedibili) andamenti psico-sociali non dovrebbe implicare alcuna rassegnazione, ma rappresentare semmai una ragione in più per intraprendere  – ciascuno secondo le proprie possibilità e responsabilità – azioni (e politiche) preventive  contro ogni forma di solitudine, disperazione, declino.